Il governo finora ha deluso le attese, pur avendo migliorato un po’ la credibilità esterna dell’Italia minata da litigiosità e stranezze del precedente esecutivo, perché ha interpretato il requisito del rigore – necessario per rendere credibile che l’Italia ripagherà il debito, intanto, non aumentandolo – alzando le tasse invece che tagliando la spesa pubblica. In particolare, tale modo di ottenere il pareggio di bilancio ha amplificato la tendenza recessiva mettendo l’Italia a rischio di depressione strutturale, con impoverimento accelerato di una parte consistente della società.
Rischio rilevato da tutti gli osservatori che hanno indirizzato a Monti segnali urgenti di cambio di marcia. Secondo me, il più pesante, perché in linguaggio delle èlite, è arrivato dal Fmi quando ha previsto che l’Italia, se non cambia linea di politica economica, non riuscirà a raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013, ma solo nel 2017. Bocciatura pesante di Monti proprio dal suo sistema di riferimento.
E infatti ora il governo sembra cambiare marcia: cercherà di evitare con tagli alla spesa il rialzo dell’Iva dal 21% al 23% previsto, come opzione, a ottobre. In generale, appare un primo segnale di consapevolezza da parte dell’esecutivo che ormai si è raggiunto il limite di sostenibilità dei carichi fiscali diretti e indiretti. Ciò apre uno spiraglio per la giusta dottrina del rigore: va perseguito non alzando le tasse, ma tagliando spesa pubblica, e la sua compatibilità con la crescita va cercata tagliando tasse in misure equivalente alla riduzione di spesa stessa.
Se si tagliano spesa e tasse sincronicamente, l’effetto recessivo del minor denaro pubblico inserito nel ciclo economico viene bilanciato dal minor drenaggio fiscale. Bisogna, infatti, considerare che un euro intermediato dalla burocrazia produce si e no un euro stesso. Mentre un euro lasciato nel libero mercato, cioè nel ciclo privato risparmio-consumi-investimenti, ne produce almeno due se non di più.
In generale, la produttività sistemica della spesa pubblica è minima e un drenaggio fiscale eccessivo per alimentarla – in Italia quasi il 50% del Pil – deprime strutturalmente l’economia. Aggiungo che le tasse indirette hanno il peggior effetto depressivo sul piano sistemico perché disincentivano i consumi che sono il motore principale di crescita del mercato interno. Tale analisi è controversa, nel senso che parecchi economisti ritengono meno dannoso l’aumento delle tasse indirette, come l’Iva, in relazione alla tasse dirette.
Secondo me, è un errore, grave, perché ambedue le tassazioni sono depressive oltre certe soglie. Per questo ritengo prioritario evitare l’aumento dell’Iva, anche considerando che poi sarà quasi impossibile ridurla. Per riuscirci, in particolare, il governo dovrà tagliare almeno 16 miliardi di spesa corrente. La tendenza è quella di farlo in due fasi, una immediata che riduce la spesa delle amministrazioni centrali, più facile da eseguirsi in quanto riguarda i bilanci dei ministeri, seguita da una che implica un’analisi più approfondita del bilancio pubblico generale, cioè una revisione della spesa – detta sulla stampa con l’inutile inglesismo di Spending Review – basata sul criterio di utilità ed efficienza.
Da un lato, il taglio possibile e utile di spesa sarebbe di circa 100 miliardi strutturali, come spesso argomentato su queste pagina. Ma se il governo, intanto, ne taglia 16 e ci evita l’aumento dell’Iva dovremo essere contenti. Forse, forse, c’è una svolta verso la giusta dottrina del rigore.