REFERENDUM AUTONOMIA LOMBARDIA E VENETO. Caro direttore,
il dibattito sui referendum consultivi del prossimo 22 ottobre indetti in Veneto e Lombardia è sicuramente interessante, anche perché sta emergendo un dibattito teso alla valorizzazione dell’autonomia delle Regioni in un quadro di coesione nazionale e di rispetto della nostra costituzione. Alcuni tentativi da parte di alcune Regioni in passato sono stati fatti, ma sono naufragati soprattutto per il nodo delle risorse, o per motivi politici.
Di sicuro l’attivazione di quanto previsto a livello costituzionale non prevede il referendum e i suoi costi, ma è altrettanto vero che l’espressione della democrazia diretta ha il suo peso. Io sono persuaso, anche per esperienza personale, che autonomia significa responsabilità e che se le cosiddette regioni virtuose intendono avere più autonomia il punto non sono innanzitutto le risorse (assolutamente necessarie, ma non sufficienti) ma assumere quelle competenze che ragionevolmente e realisticamente sono in grado di gestire per il bene della propria comunità regionale, e in base ad esse vanno verificate le adeguate risorse.
Se infatti non sempre lo Stato sa gestire al meglio le proprie competenze sul territorio, non è affatto scontato che le Regioni sappiano gestire meglio le stesse competenze per la comunità di riferimento. Ogni percorso di maggior autonomia alle Regioni va accompagnato da una seria assunzione di responsabilità anche operativa, nella consapevolezza che se da un lato è auspicabile che le decisioni siano assunte al livello istituzionale più vicino al cittadino, dall’altro va ricordato che al cittadino innanzitutto interessa avere servizi efficienti ed efficaci. Alla politica spetta il compito arduo, ma affascinante, di perseguire sempre il bene comune e quindi con questa cartina al tornasole va valutata ogni proposta di modifica degli assetti istituzionali.
Come sempre poi ogni dibattito sugli assetti istituzionali fa anche emergere qual è il ruolo assegnato alla politica, che in democrazia va poi a governare le istituzioni.
In tal senso ho molto apprezzato il recente intervento di Giorgio Vittadini. Partendo dal tema dei referendum, ha allargato la sua importante riflessione a cosa sia oggi il lavoro politico. Citando Papa Francesco ha sottolineato che il realismo dovrebbe essere la prima regola in politica, nella consapevolezza che innanzitutto nessuno ha la bacchetta magica, che tutti sbagliano e che il punto è riconoscerlo, correggersi ed andare avanti.
Devo ammettere che anche nella mia esperienza di consigliere regionale e provinciale la consapevolezza del proprio limite e l’apertura alla realtà che è positiva come ipotesi di partenza, apre la strada a valorizzare l’altro, a confrontarsi per individuare le soluzioni migliori, ad ascoltare, mediare, gettare ponti. Non è un lavoro facile: richiede passione, fatica, applicazione, pazienza, studio per approfondire le questioni poste, disponibilità a fare personalmente passi indietro, riconoscere i propri errori per camminare insieme. Richiede un’ultima gratuità: tutto ti è dato e nessuno ti deve nulla. Ma è un lavoro affascinante, che richiede da un lato il coraggio del buon senso, che spesso sembra latitare (“Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune” ci ricorda Manzoni) e dall’altro il condividere tale avventura con altri (il rischio della solitudine è sempre dietro l’angolo) e non rifuggire mai, anzi cercare il confronto, la mediazione, l’incontro con l’altro anche per agire con lungimiranza.
Ciò vale ancor più oggi anche perché rispetto alla debolezza delle posizioni e delle identità politiche troppo spesso si risponde con la legge dei numeri, con la chiusura rispetto alle posizioni degli altri, in concreto alzando muri. E ciò è spesso vero per chi governa che rischia di non dare ragione di ciò che fa, di non confrontarsi e di imporre quando può la legge dei numeri. E viceversa si rischia di voler avere ragione a prescindere, abbandonando o minando il confronto democratico. Se vi è un’evidenza nella mia esperienza riguarda invece il fatto che l’incontro, la correzione reciproca e il confronto sono sale della democrazia, sono possibilità di servire il bene comune.
Hannah Arendt sintetizza benissimo così: “la democrazia non è una procedura, ma un costume. Se manca il costume, cioè il dialogo tra le parti, la democrazia può essere violata”.