A fine estate dello scorso anno, avevo pubblicato su queste pagine un’ampia dissertazione sui cicli economici. Il 2014 avrebbe potuto – infatti – confermare il probabile cambio di inversione del quarto ciclo di Kondratiev, e la conseguente recessione e stagnazione prolungata nel prossimo futuro. Gli ultimi avvenimenti del quadro geopolitico e finanziario di questa fine estate vanno in tale direzione, la globalizzazione e la spinta propulsiva verso “un mondo liquido” è finita: le sanzioni europee e statunitensi contro la Russia e la sua successiva reazione ne stanno confermando il suo de profundis.
Secondo Karl Polanyi, il collasso della civiltà del XIX secolo – che poggiava su quattro istituzioni: il sistema dell’equilibrio del potere che per un secolo impedì le guerre tra le grandi potenze (1815-1914); la base aurea internazionale che simboleggiava un’organizzazione unica dell’economia mondiale; il mercato autoregolamentato, fonte di benessere economico; e infine lo Stato liberale – fu provocato, con lo scoppio della Prima guerra mondiale, dal venir meno di queste quattro condizioni. Alla fine del XX secolo a queste istituzioni sono subentrati due nuovi fattori: la globalizzazione e la crisi ambientale.
E quindi? La conoscenza della natura ha compiuto negli ultimi duecento anni progressi profondi rispetto alle epoche precedenti. Non sono invece così conosciuti i progressi della conoscenza storica, non modificano infatti le forme di vita ma le forme di pensiero. Essi cercano di contribuire al progresso conoscitivo, il quale non ha alcun effetto economico immediato, né alcuna evidente utilità sociale. Purtroppo questa conoscenza non è molto ricercata, né richiesta e generalmente viene accolta con indifferenza o talvolta da un’opinione critica delle varie èlite di potere, che difendono i loro interessi egoistici.
Fin dal tempo dei primi filosofi sociali, quali Saint-Simon e Fourier, l’analisi di una “grande trasformazione” – secondo la definizione di Polanyi – quale il passaggio dal XIX al XX secolo e l’attuale, interpretava il nuovo mondo industriale, alla luce di parametri sociali e culturali, prima ancora che economici. Oggi, a seguito del perdurare della crisi e con l’assenza di certezze sulle teorie economiche, il panorama culturale politico-sociale si sta riproponendo il medesimo interrogativo: come nascono, crescono e tramontano le culture e gli elementi sociali, etnici, religiosi, tecnologici e storici che le sostengono? E che effetti hanno sulla vita economica?
L’analisi culturale storica attuale deve essere esente da premesse dogmatiche legate a principi precostituiti. L’indagine deve focalizzarsi non sugli Stati in quanto tali, bensì su complessi storici più ampi, che lo storico inglese Toynbee chiamò società. Ogni società e la sua cultura è collocata in un ambiente fisicamente e storicamente determinato, con il suo sviluppo interno. Essa viene continuamente posta di fronte a problemi cui deve saper rispondere. La risposta determina il destino di quella società e di quella cultura che può consolidarsi, emergere o soccombere in un tramonto più o meno repentino. Le domande oggi alle quali cerchiamo una risposta si riferiscono alla crisi economica ancora in corso e alla possibile modifica dei modelli di sviluppo economici e degli equilibri di geopolitica con effetti permanenti sui sistemi produttivi e sui consumi.
La consapevolezza dei limiti allo sviluppo evidenziati già nel 1972 dal Club di Roma e dall’economista Georgescu Roegen è oramai entrata nella cultura politica mondiale. Nel 1989, il futuro Premio Nobel Krugman, aveva pubblicato un saggio nel quale evidenziava che le future generazioni non avrebbero più potuto pensare a un tenore di vita sempre migliore; la stessa ultima Enciclica “Caritas in Veritate” evidenzia che acquistare è un atto morale oltre che economico, e in momenti come quelli che si stanno sperimentando si dovrà consumare con maggiore sobrietà.
Ora, ritornando ai parametri sociali e culturali, non possiamo non renderci conto del fenomeno internet e degli effetti della comunicazione digitale, con il loro condizionamento sull’agire umano, al quale rimando il lettore a un mio precedente articolo. Paolo Raffone su queste pagine ha recentemente evidenziato il problema: il pensiero olistico che poggiava sul concetto platonico aliquis in omnibus, nullus in singulis sta scomparendo. La modernità e la scienza nell’ultimo secolo hanno via via affermato le barbarie dello specialismo dell’”uomo massa” scoperto e analizzato da Ortega Y Gasset. Un uomo privo di memoria storica e legami organici con la tradizione presente in tutte le classi sociali, principalmente nella borghesia. Un tipo di uomo specialista in una determinata disciplina, esperto solo in parte, che rifugge l’interesse per la totalità del sapere.
Tuttavia la supponenza intellettuale che deriva dalla sua specializzazione autorizza questi uomini-scienza a intervenire in ogni settore della vita pubblica, della cultura, dell’arte senza un’attitudine a coglierne la complessità, con il rischio di elaborare analisi euristiche e quindi un crollo della capacità elaborativa e l’emergere di un decadimento morale ed etico: un nuovo medioevo del logos europeo. Il pensiero dominante è pertanto pervaso dalla ricerca del benessere e dalla difesa dello status quo sociale, ove slogan, tweet, selfie e corpi umani sempre più tatuati, auto-incensano la ricerca di identità.
I fatti storici non sono mai lineari, né determinati, possono essere isolati o concatenati, previsti o casuali. Ad esempio, la Rivoluzione francese è identificata da alcuni come l’epilogo della scalata al potere della classe borghese sull’aristocrazia, altri invece ritengono che fu l’inizio di un lento processo culturale-sociale ed economico che si esaurì un secolo dopo, alla fine della Prima guerra mondiale con il crollo degli imperi continentali e del mondo dorato elitario della “ belle epoque”. Diversi furono infatti gli episodi che rallentarono questo movimento, a partire dal Congresso di Vienna, poi di Verona del 1822, la repressione dei moti del 1848 e dell’austerità culturale dell’Inghilterra Vittoriana. Tutte espressioni della classe dominante in declino volta a conservare il potere.
La fine della Guerra fredda e la caduta del Muro di Berlino nel 1989, duecento anni dopo, hanno aperto alla globalizzazione, ma probabilmente – anche in questo caso – questo processo culturale economico sarà lento e contrastato. Il Time del 4 agosto, con un articolo di copertina, titolava “La seconda guerra fredda”, confermando l’emergere di una nuova tensione fra le vecchie potenze, le successive dichiarazioni di Brzezinski e Kissinger ne hanno evidenziato l’intensità. Nello spazio di un semestre la Russia di Putin, da partner industriale e commerciale dell’Occidente, è diventata una potenza imperialista e “nemica”.
La lettura degli eventi così rappresentati deve essere analizzata anche considerando un altro tassello del mosaico, quale il paper pubblicato nel marzo 2011 dal titolo “The liquidation of Government debt“ redatto dagli economisti statunitensi Carmen M. Reinhart e M. Belen Sbrancia, ove è evidenziato come storicamente l’aumento eccessivo del debito si è sempre poi risolto in una sua ristrutturazione perseguita dai governanti. Tale politica viene definita dagli autori “repressione finanziaria” e consiste in una serie di vincoli, più o meno espliciti, sui tassi di interesse, sulla regolamentazione dei movimenti transfrontalieri di capitali, sui rendimenti pensionistici e generalmente viene cementata da uno più stretto legame fra il Governo e le banche finalizzata a un’allocazione indotta del risparmio nazionale nei titoli di debito statali.
Se così fosse, il ripristino di dazi commerciali, la restrizione nei movimenti di capitali, e per ultimo, il rischio di una pandemia dovuta all’ebola, quale determinante psicologica alla circolazione delle persone, vanno in questa direzione, verso una nuova repressione finanziaria dovuta per necessità, per affermare e sostenere la libertà del popolo ucraino, non per volontà. Toynbee ricordava che le società dominanti hanno sempre agito sul controllo della moneta, delle vie di comunicazioni e dei mezzi che le utilizzano per affermare la loro supremazia. In un gioco sottile di specchi, gli eventi della storia hanno riflesso – come evidenziato dal filosofo Renè Girard – conflitti mimetici, per il dominio e la sopravvivenza delle civiltà e la loro vitalità dipende da come reagiscono al mutare dell’ambiente.
La politica estera di Bush per elevare gli Stati Uniti a gendarmi del mondo – e dopo l’11 settembre con la reazione della “guerra al terrore”- è stata molto dispendiosa. L’invio di forze terrestri di coalizione, con l’obbiettivo di trasformare con la forza in tempi brevi società islamiche pre-moderne in democrazie post-moderne in Iraq e Afghanistan – o ancora i bombardamenti in Libia e il sostegno alle primavere arabe – ha evidenziato la sua fragilità e si è dovuto ammettere l’irrealismo della fine della storia, così cara a Fukuyama.
L’enorme sforzo bellico, sociale ed economico statunitense, ha consentito ai Brics, e in particolare alla Cina, di accrescere la sua economia, ma anche alla Russia – con i prezzi elevati di petrolio e gas – di recuperare parte dell’influenza perduta negli anni Novanta. La disunione europea e la politica tedesca volta, da una parte, alla germanizzazione dell’Europa e, dall’altra, a una politica euroasiatica di accordo sia con Mosca che con Pechino, hanno fatto sì che il ritorno della Russia al controllo delle sue periferie sia stato più indolore del previsto e che la Cina accelerasse il suo livello tecnologico e finanziario-economico.
A questi fattori se ne sono aggiunti altri: il perdurare della crisi economica, l’eccessivo peso del debito degli Stati, il procrastinarsi delle tensioni nei vari scacchieri internazionali fra Siria, Gaza, l’epilogo delle primavere arabe, la nascita dell’Isis e, infine, l’Ucraina. In realtà, la logica di porre i nemici un con l’altro come i sunniti contro gli sciiti, di considerare i vecchi nemici come l’Iran ora nuovi amici ovvero impiegare il soft power – comunicazione e disinformazione cybernetica, neuroscienze, bio-teconologie – o nuove tecnologie di hard power – droni e robot intelligenti – e infine, caos e complessità, è una strategia (E. Luttwak, La grande strategia dell’Impero Bizantino). Centrale comunque è il controllo della moneta: “L’oro rimane sempre il mezzo più importante di persuasione. Il costo di un tributo è nettamente inferiore al prezzo che si sarebbe dovuto pagare se si fosse stati oggetto di invasione […]. Inoltre, da un punto di vista economico il pagamento di tale imposta per il controllo del potere (che per gli States è unicamente stampare dollari) non crea squilibrio finanziario in quanto viene utilizzato da chi lo riceve per acquistare beni dall’Impero, e pertanto rientrava in circolazione stimolando l’attività economica”.
Il problema vero sembrerebbe, quindi, quello finanziario. Non sono da sottovalutare alcune ulteriori informazioni, che possono confermare l’assunto. Dal 2008 a oggi gli Stati Uniti hanno immesso in circolazione 3,1 trilioni di dollari senza rilanciare una robusta ripresa economica; la velocità di circolazione del dollaro è diminuita considerevolmente, oltre il 30%; la Fed detiene oggi 4,3 trilioni di bond governativi con una leva di circa 70 volte rispetto al suo patrimonio netto; la Russia e la Cina sono venditori netti di bond americani dal novembre 2013 e la Banca centrale del Belgio ha sterilizzato il loro prezzo sul mercato acquistando fino a marzo 2014 oltre 365 miliardi di dollari di valore nominale: operazione alquanto anomala per uno Stato che ha un Pil complessivo di pari importo.
Il consensus sui mercati finanziari di molti analisti, visto il quadro macro economico e geopolitico, sta diventando negativo e lo scenario più probabile nel prossimo futuro non è idilliaco: fine della globalizzazione e futura stagnazione.
Lascio al lettore una domanda in cerca di risposta: in questo contesto quale sarà il futuro dell’Europa e dell’Italia?