Se si guarda il mondo a partire dall’Asia, e non dall’Europa, molte questioni rilevanti della nuova configurazione del capitalismo mondiale emergono in piena luce. È ben chiara, innanzitutto, la scomposizione della globalizzazione finanziaria in aree ben distinte meno interdipendenti di quanto lo fossero prima del 2007, anno non dell’inizio ma della rivelazione della crisi. La globalizzazione finanziaria a livello mondiale si è arrestata, sino quasi a fermarsi. L’accumulazione del capitale ha per certi versi ripreso caratteristiche simili a quelle della fase della grande industrializzazione. I mercati emergenti, tanto l’Asia quanto il Sud America, hanno ripreso ad attrarre larga parte (dopo gli Usa) degli investimenti finanziari mondiali, a fronte della debolezza degli investimenti in Europa.
Da questo punto di vista, nel contesto del generale arretramento, i mercati emergenti acquistano sempre più importanza a fronte di una spiccata decadenza dell’Eurozona. In questo quadro, il ruolo degli Stati Uniti è ancora più forte di un tempo, ossia diventa il punto fondamentale di riferimento per gli investimenti rifugio. Le banche mondiali, invece, e quindi gli investitori mondiali, guardano all’Eurozona ancora con enorme diffidenza, soprattutto nei confronti delle tre maggiori economie (Germania, Francia, Italia), che appaiono sempre più incapaci di coordinare le loro politiche economiche. Questo nel mentre si assiste alla drammatica fuga dei capitali dal Portogallo, dall’Irlanda, dalla Grecia.
Ciò che dall’Asia non si capisce, se si parla con gli operatori dell’oligopolio finanziario e i rappresentanti delle diversissime industrie nazionali ( l’Asia non esiste, esistono tante Asie), è come sia stato possibile creare nell’Eurozona un insieme così stringente di regolazione dei mercati in un contesto dell’economia reale che si va sempre via via più divaricando. Ciò che spaventa soprattutto è la prossima unione bancaria, dove alla Banca centrale europea e a organismi tecnocratici promananti dalla Commissione verranno affidati compiti di sorveglianza, di accountability, di intervento per salvare o per ristrutturare le più di cento imprese bancarie sottoposte a controllo, senza che a tutto ciò corrisponda una qualsivoglia sorta di legittimità popolare, vista la castrazione implementativa a cui soggiace un Parlamento europeo privo di qualsivoglia potere.
Eh, sì! Perché qui sta l’arcano. Oggi alcune nazioni strategiche dell’Asia, in primis la Tailandia, ma anche Myanmar, l’Indonesia, la Cambogia, l’India, la Cina, sono scosse da profonde mobilitazioni collettive. Le cause sono molteplici. Gli operai protestano per i bassi salari e gli inumani orari di lavoro. In India i nazionalisti induisti devastano le sedi del Partito del Congresso e minacciano i suoi attivisti. Le nuove classi medie tailandesi non si riconoscono più nella monarchia e nell’esercito e si scontrano con i rappresentanti di un establishment che, pur di fermarne l’avanzata, non esitano a bloccare una città immensa come Bangkok con la sostanziale complicità dell’esercito e della monarchia. I monaci buddisti theravada, in Myanmar e in Indonesia, sono alla testa di movimenti collettivi che non avremmo mai immaginato potessero svilupparsi con tale forza.
Insomma, l’Asia sta scoprendo il legame tra politica ed economia e se non v’è dubbio che la necessità di stimolare gli scambi tra le nazioni, abbassare i dazi doganali, viene percepita da tutti come una necessità impellente, nessuna delle élite nazionali, di qualsivoglia fatta siano, permetterebbe mai quelle sottrazioni di sovranità che sono tipiche dell’Eurozona. Questo genera una sorta di delegittimazione dell’Europa medesima e della sua tradizione culturale tra le intelligenze e le business community locali.
Francamente non si può dar loro torto. Quello che è certo è che la decadenza europea dall’Asia spunta vivissima come la vera novità di questo secolo appena cominciato. Il dramma, pensavo mentre tornavo da Bangkok, dove mio nipote significativamente aveva trovato lavoro, è che questa decadenza altro non è che una sorta di autodafé.