Una vittoria netta nel voto degli stati, quello che elegge il presidente, un voto popolare che invece mostra un Paese nettamente spaccato in due. Barack Obama ottiene altri quattro anni e ciò di per sé è un fatto storico. Ma per restare veramente nella storia (come si dice voglia fare ogni presidente nel suo secondo mandato), deve scalare le montagne: l’economia, il Medio Oriente, la Cina, e, ultima ma non per importanza, la stessa America.
La prima parete che gli si para subito davanti (un sesto grado ad altissimo rischio) è la politica fiscale. Con un Congresso che resta diviso (la Camera ai repubblicani e il Senato ai democratici), deve trovare un accordo al più presto per evitare che scatti l’aggiustamento automatico del deficit, tagliando le spese, alzando le tasse e, di conseguenza, raffreddando la domanda e la produzione. Insomma, modello austerità europea.
Il fiscal cliff, così lo chiamano, viene presentato come la più pericolosa bomba a orologeria per l’economia mondiale. Obama ce la farà? Wall Street crede di sì. Nel giorno delle elezioni l’indice Dow Jones è salito dell’1%. La finanza ha scelto l’usato sicuro, e scommette su una seconda luna di miele con il Congresso.
La sconfitta di Romney, candidato senza qualità, troppo politichese, oscillante e opportunista, getta un’onda di choc sui repubblicani. Sarebbe suicida giocare allo sfascio. Questo pensa il Gotha dell’economia americana e agisce di conseguenza. I dati positivi sull’occupazione hanno dato una spinta. Il banchiere centrale, Ben Bernanke, ha fatto tutto quel che poteva per pompare moneta e sostenere lo status quo. Insomma, esistono le condizioni per una ripartenza, mentre la Cina ha evitato una recessione della crescita anche grazie alla massiccia dose di sostegni dello Stato. C’è una bolla immobiliare, c’è inflazione più o meno nascosta. Ma il prodotto lordo torna a salire attorno al 7%. A questo punto, la palla passa all’Europa.
Da questa parte dell’Atlantico, stappa champagne François Hollande che ha appena deciso un mega sostegno all’industria (20 miliardi di sgravi sul costo del lavoro). Tira un sospirone di sollievo Mario Monti. Ha già avuto più di un aiutino da Obama che lo ha scelto come interlocutore importante. In questo secondo mandato il presidente americano eserciterà ancor più la sua pressione affinché l’Europa cambi priorità e scelga la crescita. Una svolta essenziale per l’Italia. Un secondo giro anche per Monti? Le premesse ci sono. Un po’ meno contenta è Angela Merkel, non perché puntasse su Romney che non conosce e del quale diffidava, ma perché tutta la responsabilità della ripresa finisce sulle sue spalle, proprio nell’anno in cui si gioca anche lei una storica riconferma. Ma la Germania è solida e andrà avanti per la propria strada.
La Cina di Xi e di Li, la nuova coppia al comando tra pochi giorni, sa con chi ha a che fare e sceglie la continuità. Con Romney rischiava una politica di confronto a muso duro. Il problema, adesso, è cosa farà Obama: alzerà o no l’asticella dei diritti umani e quella della reciprocità nel commercio internazionale? Nuvole di tempesta s’accumulano sul Pacifico. Solo gli Stati Uniti possono evitare un disastroso conflitto militare tra la Cina e i suoi vicini. Ma deve parlare con tono vellutato tenendo il bastone dietro la schiena. Invece, il soft power obamiano si è rivelato finora troppo soft.
Ciò vale ancor più nel Mediterraneo. Gli echi del discorso del Cairo si sono spenti da tempo. La mano tesa al mondo arabo non è stata colta. Le rivoluzioni di primavera si sono trasformate in restaurazioni islamiste in autunno. Certo, con la Fratellanza musulmana si può discutere e lo si fa. Ma sono i salafiti a menare la danza. Mentre gli emirati del Golfo Persico e l’Arabia saudita estendono la sfera di influenza. Il loro problema è sconfiggere e isolare l’Iran, essenziale è non lasciare la fiamma dell’Islam radicale nelle mani degli ayatollah. Spetta al Comandante in capo, l’unico che abbia il potere e l’influenza, esercitare un ruolo leader che finora è mancato. In Israele la vittoria di Obama è una sconfitta secca per Netanyahu e, probabilmente, prepara un cambio di governo. È questa, ancora una volta, la prova più dura. Perché qui si gioca di nuovo l’appuntamento con la storia.
Infine, l’America. Per restare davvero tra i grandi presidenti, come Reagan, come Clinton, adesso Obama deve riappacificare il suo stesso Paese. Sarà sempre una figura controversa, le sue origini, la sua cultura, il suo modo d’essere, tutto è destinato a suscitare odi, ma proprio questo è il compito più difficile. Anche Reagan e Clinton erano personalità spiccate che hanno provocato divisioni profonde, umane e ideologiche. Ma nel loro secondo mandato sono riuscite a parlare a tutti. Il primo ripristinando una potenza infiacchita e vincendo la Guerra fredda. Il secondo lanciando la più grande espansione dell’economia mondiale da un secolo a questa parte. Obama adesso deve scegliere la sua priorità e mettere le vele al vento.