E adesso chi ferma più Donald Trump? Il tycoon martedì ha inanellato la sua terza vittoria alle primarie, questa volta in Nevada, dove ha raccolto il 46% dei consensi e ha messo una seria ipoteca sulla candidatura finale per il voto presidenziale del prossimo novembre: «Possiamo vincere la nomination in meno di due mesi», ha proclamato il miliardario newyorchese davanti ai suoi sostenitori. Doveva essere un fuoco di paglia, un fenomeno da baraccone, il candidato-stereotipo che non sarebbe sopravvissuto al primo voto e invece la marcia di Trump continua, puntando adesso diritto verso il Super-Tuesday del 1 marzo prossimo, quando voteranno ben 12 Stati e verranno assegnati quasi un terzo dei delegati. Insomma, la prossima settimana il Grand Old Party potrebbe avere il suo candidato presidente contro ogni pronostico.
Fondamentale per togliere dal piatto ogni discussione sarà il Texas, dove è favorito Ted Cruz, essendo un senatore di quello Stato, ma il voto in Nevada ci ha dimostrato come i pronostici della vigilia in queste primarie siano fatti per essere smentiti. Il favorito era infatti Marco Rubio, che in Nevada ha vissuto la sua adolescenza e che essendo figlio di cubani poteva raccogliere ampi consensi tra la numerosa comunità ispanica: invece Rubio si è fermato al 24%. Trump è riuscito a conquistare una larga parte di questi elettori, gli stessi che formalmente non dovrebbero amarlo troppo, visto che ha definito agli immigrati messicani “ladri e stupratori”.
Qual è il segreto di Teflon Trump, così ribattezzato perché resistente a ogni urto? È anti-sistema allo stato puro, ritiene Washington e la politica che lì viene espressa un cancro che sta uccidendo l’America e il libero mercato, vuole sicurezza e infatti chiede muri con il Messico e dice no alla chiusura di Guantanamo appena annunciata da Obama, maledice le tasse troppo alte e si definisce affascinato dalla gente poco istruita, è miliardario ma parla come un camionista che si può incontrare al bancone di uno delle migliaia di tavole calde presenti sulle highway statunitensi. Populismo? Certo, a piene mani, ma l’America ne ha bisogno, dopo due mandati di tasse, debito e avvelenamento da politically correct garantito dall’amministrazione Obama. Il quale, nei suoi otto anni alla Casa Bianca, ha portato in dote soprattutto questo risultato di politica economica (rappresentato nel grafico a fondo pagina): un bell’aumento del 77,2% del debito statunitense, oggi sopra quota 19 triliardi di dollari!
Certo, Donald Trump è grezzo, polemizza con il Papa, parla come un muratore pur essendo miliardario e istruito, ma dà l’idea di essere ciò che è, si è convinti che da lui si avrà ciò che promette. Difficile pensarlo della candidata dell’establishment e di Wall Street, quella Hillary Clinton che se non portasse quel cognome sarebbe già alla sbarra per attentato alla sicurezza nazionale, visto che quando era Segretario di Stato inviava mail classificate come top secret dal suo account privato: ma si sa, in casa democratica funziona così, dipende tutto da che cognome porti. Ai Kennedy fu perdonato di tutto, così ai Clinton.
È contro questa America che la gente vuole votare ed è per questo che vota Trump, per quanto impresentabile e caricaturale sia. E anche le battutine di Obama sul fatto che non sarebbe affatto tranquillizzante che uno così avesse i codici della valigetta nucleare non fanno presa sulla gente: gli americani sono in crisi dal 2008, una crisi durissima che ha visto salvare banche e manager e gettato sulla strada onesti lavoratori, un’America che è già oggi di nuovo in recessione e che non sa come uscirne, visto che la politica ultra-keynesiana dei tassi a zero perenni della Fed l’ha infilata nel più classico e letale dei cul de sac. La questione è solo questa, le primarie statunitensi e la campagna elettorale si limitano a questo: combattere lo status quo, politico ed economico, senza più compromessi.
Intendiamoci, Keynes in teoria aveva anche ragione, la sua logica era corretta: a suo modo di vedere, infatti, affinché la spesa a deficit fosse efficace serviva che quanto ottenuto dall’investimento finanziato a debito offrisse un return maggiore del debito stesso contratto inizialmente. Il problema negli Usa di oggi è che la spesa governativa si è discostata da un investimento produttivo che crea occupazione, vedi le infrastrutture e lo sviluppo, a servizio primario di debito e welfare, ovvero investimenti che garantiscono con certezza un return negativo per le casse pubbliche.
Stando al Center On Budget & Policy Priorities e come ci mostra il grafico a fondo pagina, oggi circa il 75% di ogni dollaro proveniente da tassazione finisce in spesa non produttiva. Non è una società di libero mercato, è l’Unione Sovietica con i McDonalds e i Wal-Mart. È questo il vero kicker politico di queste elezioni, anche se declinato ed espresso nel linguaggio rozzo di Donald Trump. Nel 2014 il governo federale ha speso 3,5 triliardi di dollari, circa il 20% dell’intero Pil nazionale. Bene, di questa cifra totale, 3,15 triliardi sono stati finanziati da introiti fiscali e 485 miliardi attraverso il debito. In altre parole, c’è voluto quasi l’intero introito fiscale ottenuto dal governo solo per coprire le spese di welfare sociale e di servizio del debito: in ambito finanziario, quando prendi a prestito denaro da altri per pagare ciò che altrimenti non potresti permetterti si chiama Schema Ponzi, ovvero una truffa che ti porta in galera. Bene, il governo Usa è un truffatore legalizzato da triliardi.
Il debito, infatti, se utilizzato per investimenti produttivi può essere una soluzione per stimolare la crescita economica nel breve termine, ma negli Usa degli ultimi anni questo stesso debito è stato sperperato per incrementare i programmi di welfare sociale – vedi il programma sanitario Obamacare – e servizio del debito. E, attenzione, perché non solo questo tipo di investimenti non sono produttivi e anzi portano returnnegativi, ma le spese obbligatorie del programma sanitario tanto voluto da Obama sono una delle ragioni dell’aumento dell’inflazione reale, insieme agli affitti, visto che in America comprare casa è sempre più difficile, i mutui non vengono erogati facilmente o richiesti volentieri e la ratio reddito/pigione è sempre più fuori controllo in molte aree urbane, tra cui New York e San Francisco. Inoltre, più ampio diventa il bilancio del debito, più si tramuta in qualcosa di economicamente distruttivo, visto che sposta un ammontare sempre maggiore di dollari federali da investimenti produttivi a servizio del debito sempre più insostenibile.
Insomma, crescita del debito e crescita economica sono inconciliabili. A partire dal 1980, l’aumento generale del debito ha toccato livelli tali da portarlo a superare l’intera crescita economica, il cui tasso oggi è ai livelli minimi da quando viene tracciato il dato: il debito, invece, continua a crescere senza sosta. Di fatto, una lenta asfissia. Attualmente negli Usa ci vogliono 3,71 dollari di debito per creare 1 dollaro di crescita: stiamo parlando dell’America, non del Venezuela di Chavez e Maduro! Infatti, il deficit economico non è mai stato così ampio. Tra il 1952 e il 1982, il surplus economico ha garantito una dinamo alla crescita economica che ha viaggiato a un tasso medio dell’8%, oggi invece abbiamo crescita che arriva a malapena al 2% e il deficit, di conseguenza, si è ampliato a dismisura. Ma il problema dell’America non è solo il debito federale, è tutto il debito.
Quando parliamo dell’americano medio, infatti, parliamo di qualcuno che è responsabile e fattore attivo per i due terzi della crescita attraverso le spese per consumi personali, ma anche di qualcuno ha utilizzato e utilizza il debito per sostenere uno stile di vita che è ben oltre le sue possibilità e che non è affatto in linea con la sua capacità reddituale. Ma questa è la società dei consumi e se si rompe questo circolo vizioso, il castello di sabbia crolla, visto che i consumi pesano per il 70% del Pil statunitense. Fino a oggi questo schema è funzionato perché la capacità di utilizzare l’effetto leva sull’indebitamento era un’opzione, resa possibile ad esempio dall’uso eccessivo e spericolato di carte di debito e credito e di credito al consumo. Ora, però, il debito ha raggiunto un livello tale per cui il costo del suo servizio erode la capacità di consumare a ritmi tali da poter sostenere la crescita economica: lo Schema Ponzi sta per venire giù.
Insomma, la crescita economica Usa è minacciata dal debito sia dello Stato che dei cittadini, i quali hanno seguito la via federale di spingersi sempre di più in una politica di spesa a deficit. E quale è stato il crocevia, il turning point? Il 1980. Tra il 1950 e il 1980, infatti, l’economia Usa è cresciuta a un tasso annuo del 7,70%, un risultato che si accompagnava a una ratio di debito totale su Pil di meno del 150%: addirittura, in quel lasso di tempo la crescita economica restò in trend di crescita fisso, passando da un minimo del 5% a un massimo di quasi il 15%.
Due furono le ragioni di quel successo. Primo, basso livello di indebitamento che permettevano una crescita del risparmio personale, il quale rimanendo robusto poteva andare a finanziare investimenti produttivi nell’economia reale. Secondo, l’economia Usa rimase focalizzate e incentrata essenzialmente su produzioni primarie e manifattura, settori che hanno un enorme effetto di moltiplicazione del Pil. Il tutto, in un contesto che vide i tassi di interesse continuare a crescere fino al picco raggiunto durante l’espansione economica degli anni Ottanta.
E dopo quel periodo, cos’ è accaduto? È accaduto che da 35 anni a questa parte la crescita economica Usa è continuata a calare insieme alla produttività e questo ha costretto gli americani a combattere per mantenere uno stile di vita che non possono permettersi. Con le dinamiche di crescita salariale stagnanti se non in calo, i consumatori sono stati obbligati a ripiegare sul credito per colmare il gap reddituale che non gli consentiva il mantenimento del proprio standard di vita. Ma la Scuola Austriaca ci insegna che più si opera a leva sull’indebitamento, più dollari sono tolti alle spese per consumo personale (driver primario di crescita e Pil) per essere messi al servizio del debito contratto e in continua espansione.
Non so se chi vota Donald Trump ha in mente tutto questo, ma so che sa leggere lo statino di fine mese, le bollette, il saldo del conto corrente e lo scontrino del supermarket: e ha deciso di dire basta all’America del debito senza fine plasticamente rappresentata da Obama e soci. Forse lo slogan Make America great againsignifica in parte anche questo, non solo flettere i muscoli e alzare muri.