Citando Robert Altman, America oggi. Gli Stati Uniti non hanno mai fatto default sul loro debito e sia i Democratici che i Repubblicani continuano a ripetersi e ripeterci che non vogliono che questo accada ora. Peccato che il livello di acrimonia e divisione che corre tra i due partiti riguardo le misure per colmare il deficit ha reso ponderabile ciò che fino a poco fa era addirittura impensabile.
Il governo Usa, oggi, prende a prestito circa 42 centesimi di ogni dollaro che spende, ma provate a immaginare se un giorno non troppo lontano, il livello di prestito schizzasse contro il livello corrente di limite di debito, ovvero 14,3 trilioni di dollari e il Congresso non riuscisse ad alzare quest’ultimo. Il danno che creerebbe questa situazione non solo contagerebbe l’intera economia Usa, ma anche i mercati globali. A quel punto un default arriverebbe se il governo fallisse nell’ottemperare ai doveri di un’obbligazione finanziaria, incluso il ripagare un prestito o l’interesse su quel prestito.
Come il governo ottiene prestiti è cosa nota: vendendo bond a individui e governi con la promessa di ripagare un ammontare dell’obbligazione in un determinato periodo di tempo e accettando di pagare interessi regolari su quel bond nel frattempo. Tra i primi a pagare il conto a un’ipotesi simile, ovvero all’incapacità di ottemperare a impegni finanziari da parte del governo Usa, ci sarebbero i fondi money-market che detengono securities statunitensi, banche che comprano i bonds direttamente dalla Fed per poi rivenderli ai consumatori, inclusi fondi mutuali e pensionistici e la comunità di investitori internazionali, i quali detengono quasi la metà di tutte le securities del Treasury.
Se gli Usa cominceranno a non pagare interessi o cedole, i detentori di obbligazioni (ovvero chi presta soldi agli Usa) chiederanno tassi d’interesse sempre più alti sui nuovi bonds emessi, esattamente come accade per la Grecia, l’Irlanda e il Portogallo: e, come vi ho già detto, quest’anno il buon Tim Geithner vuole piazzare T-Bil per 1,5 trilioni di dollari. A un certo punto, quindi, il governo dovrebbe tagliare drasticamente la spesa in altri settori per garantirsi fondi per riuscire a emettere e allocare nuovi T-Bills e bonds alle peggiori condizioni imposte dai mercati: detto fatto, questa contrazione colpirà i pagamenti dei contractors federali, la sicurezza sociale e altri pagamenti di benefit governativi, ad esempio gli stipendi dei lavoratori federali.
Un default di questo genere non farebbe altro che attivare una spirale di panico finanziario simile a quella del 2008 in seno a un’economia che ancora sta facendo i conti con alta disoccupazione e un mercato immobiliare a pezzi, rispedendo il sistema America in recessione. Non è un caso che il capo della Fed, Ben Bernanke, abbia definito il potenziale fallimento nell’innalzamento del limite di debito “un evento stronca-ripresa”, capace inoltre di affossare i mercati e colpendo così metà dei cittadini statunitensi che detengono titoli.
Il costo del credito salirebbe, dai prestiti d’affari a quelli al consumo fino ai mutui immobiliari, al finanziamento e alle carte di credito e il dollaro si deprimerebbe ulteriormente, rischiando davvero di perdere il suo status di valuta di riserva mondiale. A quel punto la Cina e gli altri paesi che detengono la metà delle securities statunitensi potrebbero cominciare a scaricarle oppure a chiedere interessi sempre maggiori, facendo deteriorare ulteriormente lo stato di salute del debito per pagare quei rendimenti: un circolo vizioso devastante.
Se ci sarà un ingorgo politico nella discussione sul limite del debito, entro quest’estate il governo potrebbe trovarsi legalmente incapace di prendere a prestito denaro per pagare i suoi conti, cominciando dagli interessi sul suo debito fino alle operazioni federali day-to-day: non sarà lontano il giorno in cui il governo dovrà decidere quali conti pagare e quali no. Il ceiling sul debito, ovvero il tetto massimo, sarà toccato il 16 maggio prossimo, ha confermato il Dipartimento del Treasury. A differenza di quanto accaduto due settimane fa con l’accordo in extremis al Congresso per evitare la chiusura di molte istituzioni federali, in questo caso il giorno del non ritorno potrebbe essere dilazionato fino al prossimo luglio, vista anche le capacità creative di gestione dei libri contabili del Treasury.
Come ricorderete, quando la House of Representatives bocciò la prima volta il piano di salvataggio bancario da 600 miliardi di dollari dell’amministrazione Bush, il Dow Jones si ritrovò a ballare nella spirale da vertigine attorno ai 778 punti: beh, ricordatevi cosa è accaduto la scorsa settimana quando Standard&Poor’s ha operato il downgrade sull’outlook del debito Usa, passandolo da “stabile” a “negativo”, nei fatti il prodromo dell’addio allo status AAA. Per David Wyss, capo economista di S&P’s, «non si è trattato di un downgrade. Semplicemente, abbiamo avvertito se il governo non farà nulla, saremo costretti a operare di conseguenza. Tanto più che l’ipotesi di un default governativo resta un territorio mai tracciato né studiato come possibile e quindi non è una buona idea sfondare il tetto di debito. Resto convinto che alla fine, anche se in ritardo, si arriverà a tagli tali da poter mantenere lo status AAA, ma ragioni di preoccupazione non mancano».
Lo conferma uno studio di JP Morgan Chase, secondo cui ogni ritardo da parte del Treasury nel pagamento di cedole o interessi «anche per un periodo molto breve di tempo, potrebbe avere conseguenze avverse nel lungo termine per le finanze del Treasury e l’economia americana». Insomma, alzate il limite di debito, visto che per l’ad di JP Morgan Chase, Jaime Dixon, «se qualcuno vuole schiacciare quel bottone, operazione che porterà con sé conseguenze catastrofiche e imprevedibili, penso che sia completamente pazzo». Ma di chi è la colpa del debito alle stelle, passato dai 9 trilioni del 2007 a sfiorare il tetto dei 14,3 trilioni oggi? Le politiche di George Bush, ovvero due guerre e tagli fiscali a beneficio dei più abbienti? O quella di Obama, incentrate troppo sulla spesa pubblica?
La risposta è una: la recessione. Peccato che ora il tempo stia scadendo e che da un lato i Repubblicani debbano scendere a patti con alcuni loro esponenti vicini al Tea Party, decisi a dare il via libera all’aumento del tetto solo a certe condizioni e dall’altro, stando ai sondaggi, una larga parte degli americani stessi si opponga a un aumento del limite sul debito, operazione compiuta dieci volte negli ultimi dieci anni. Quando nel 2006 Bush diede vita a un aumento, l’allora senatore Barack Obama votò contro accusando il presidente di «fallimento nella leadership», salvo ricredersi poche settimane fa scusandosi per quanto fatto e ammettendo di «aver compiuto un voto solo politico, invece di fare ciò che era importante per la nazione». Andiamo bene.. Anche perché da Pechino, nel silenzio generale, pochi giorni fa è giunta l’ennesima minaccia, con timing perfetto rispetto alla scadenza di maggio sul limite di debito e all’impasse politica.
Dopo aver denunciato che il Paese ha riserve eccessive di dollari e che queste vanno urgentemente diversificate, il governatore della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, ha fatto capire che la Cina è pronta a tagliare le sue riserve in dollari (cresciute di altri 197,4 miliardi di dollari nei primi tre mesi di quest’anno a quota 3,04 trilioni) per un importo pari alla quantità di biglietti verdi stampati dalla Fed, ovvero circa 2 trilioni di dollari. Non male, visto che appare ormai chiaro che i fondi pensione giapponesi stanno per fare altrettanto con le securities Usa che detengono, soprattutto T-Bills.
Per Xia Bin, membro del comitato monetario della Banca centrale, 1 trilione di dollari di riserve denominate nel biglietto verde sarebbe sufficiente e consentirebbe di investire gli altri due in maniera più strategica, utilizzandoli per acquistare risorse e tecnologia necessaria per l’economia reale, fornendo capitale alle aziende statali in settori chiave, espandendo gli investimenti esteri, emettendo bond stranieri e migliorando il sistema di welfare nazionale in settori come educazione e sanità. E la pensa così anche il mercato, visto che Tang Shuangning del China Everbright Group, ritiene necessario che «la Cina riduca le sue eccessive riserve in valuta estera e diversifichi ulteriormente le sue holdings, portando le riserve a una cifra complessiva compresa tra 800 miliardi e 1,3 trilioni di dollari».
Di più, proprio ieri il capo ricercatore della Banca del Popolo cinese, Zhang Jianhua, ha messo in guardia Pechino dalla volatilità dei prezzi dei Treasuries americani e dal rischio che gli investitori possano chiedere sempre maggiori ritorni dal debito governativo Usa: per Jianhua, «il fatto che una nazione indebitata come gli Usa possa non ripagare il suo debito, potrebbe portare al rialzo i rendimenti dei Treasuries e causare una fluttuazione del prezzo del debito statunitense».
Ma la Cina lo farà davvero, scaricherà davvero il debito di Washington? Per ora, occorre essere onesti, di sicuro c’è che Pechino è certamente stanca di riciclare i dollari Usa, ma anche che non è in possesso di alternative valide, soprattutto fino a quando la sua moneta sarà relegata al grado C del Sdr (Special drawing rights), l’asset di riserve internazionale creato nel 1969 dal Fmi per supportare il sistema di cambio fisso di Bretton Woods e basato su un bouquet di quattro valute chiave internazionali. Il fatto è che le cose in Cina cambieranno e anche in fretta. Una volta che la sua moneta sarà accettata sul palcoscenico globale – e non manca molto, visti anche i salvifici acquisti di massa da parte di Pechino dei bond spagnoli e portoghesi – verrà sganciata dal peg con il dollaro e allora Pechino scaricherà il suo fardello di debito Usa, mandando un chiaro segnale al mondo: ovvero, il debito statunitense non è più una valida opportunità di investimento.
Infatti, la rivalutazione dello yuan è un passo chiave per ogni decisione strategica rispetto all’esposizione US FX, ovvero monetaria in dollari intesa come equazione “acquisto di bond/intenzioni di vendita”. A quel punto, tutti gli americani che premono per una rivalutazione dello yuan, potrebbero voler considerare che questa operazione potrebbe garantire loro solo un’iperinflazione certa, visto che la Fed nel frattempo sarà rimasto l’unico compratore di debito Usa. Sembra fantapolitica – o, almeno, lo sembrava fino al 2007 – invece è uno scenario tutt’altro che folle: l’America è a un bivio storico, più che dopo il 1929, più che dopo la Seconda Guerra mondiale, più che dopo l’11 settembre 2001.
Sicuri che Barack Obama sia l’uomo giusto per gestire una passaggio epocale simile? Oppure le élite che lo hanno fatto eleggere presidente dal nulla avevano in mente proprio questo scenario rivoluzionario e avevano bisogno di un intoccabile (nero, giovane e democratico) per metterlo in pratica quasi senza che gli americani se ne accorgessero? Il tempo, come sempre, sarà galantuomo e ci fornirà la risposta.
Difficilmente Washington accetterà che il suo destino venga deciso dalla Cina, ma anche a Pechino sono stanchi della dittatura mondiale statunitense e hanno messo in pratica le lezioni di Sun Tzu prima e Qiao Liang dopo: i mercati, meglio degli eserciti, possono distruggere un avversario. Altrimenti, secondo voi, perché sarebbero diventati negli anni di crescita record, il principale detentore di debito Usa? Solo per interesse? Coi T-Bills?
Per Domani, al termine della riunione del Fomc, il comitato della Fed per gli affari monetari, Ben Bernanke ha annunciato una conferenza stampa senza precedenti in cui si parlerà anche di politica, non solo di tassi. Staremo a sentire cosa avrà da dire: a mio avviso, utilizzando altre parole e altri termini, annuncerà che la liquidità non potrà essere tolta dal mercato da un giorno con l’altro, aprendo di fatto la strada a un prolungamento del quantitative easing 2 o alla preparazione della terza ondata. Una cosa è certa: dalle parole di Ben Bernanke capiremo quale sarà il destino di Barack Obama. E già questo non è poco.
Ieri, su ZeroHedge, uno dei blog finanziari più influenti e informati, il fondatore e direttore, Tyler Durden (pseudonimo mutuato dal personaggio interpretato da Brad Pitt in “Fight Club”), avvertiva con un post che «la missione del prossimo presidente americano sarà quella di dire alla nazione che l’era dell’America è finita». Più chiaro di così.
P.S. Venerdì scorso vi parlavo dei rally di oro e argento e del fatto che dietro l’aumento vertiginoso del prezzo di quest’ultimo in molti vedevano un gigantesco squeeze posto in essere dalla Banca del Popolo cinese. Casualmente, nelle ore in cui le autorità di Pechino annunciavano ai mercati quanto vi ho detto, ovvero la volontà di diversificare le proprie riserve in dollari, l’argento sui mercati asiatici è stato trattato a 49,35 dollari l’oncia, un aumento record di oltre il 9% da venerdì scorso! A JP Morgan Chase e al Comex cominciano davvero a tremare: se un solo contratto futures non sarà onorato dalla consegna fisica del materiale (compito del Comex), il banco è davvero pronto a saltare.