A che punto è la notte? Nel bel mezzo di una crisi della quale non conosciamo ancora tutto, sappiamo che anche l’Unione europea è entrata tecnicamente in recessione, come gli Stati Uniti. Guardando le previsioni d’autunno presentate a Bruxelles, si nota ovunque una brusca frenata che porterà la crescita attorno allo zero. E lì resteremo anche noi italiani per tutto il 2009, forse fino alla primavera 2010. Se vogliamo essere concreti e non abbandonarci al teatrino dell’apocalisse, dobbiamo riconoscere che la perdita di ricchezza e prodotto lordo sarà consistente, ma non più di quel che abbiamo sperimentato nel 1975 con lo choc petrolifero e nel 1993, dopo la catastrofe della lira. Tutti i parallelismi con la Grande Depressione, ovviamente, sono fuor di luogo.
Per un anno il timone è stato lasciato in mano alle banche centrali. Anche la Bce, in tutta la sua prudenza, ha annunciato un altro taglio dei tassi e si pensa che potrebbero scendere sotto il 3% (quelli americani sono all’1%), seguendo l’andamento dell’inflazione e cercando così dare carburante liquido alla domanda per investimenti. È presto per tirare il respiro, ma il corsetto del credito si allenta, a giudicare dall’andamento dell’Euribor. Adesso, la barra deve passare alla politica fiscale. L’Economist ha scritto nel suo editoriale che questo è “il prossimo fronte”. Un fronte ampio, che deve coinvolgere America, Cina ed Europa. Gli Usa attendono le scelte del prossimo presidente, ma non esiteranno a tagliare le imposte, nonostante i salvataggi delle banche abbiano portato il debito federale vicino al 100%. Il governo cinese dovrebbe ridurre il suo eccesso di riserve valutarie e di risparmio, aumentando i consumi interni e soprattutto la spesa sociale. L’Ue può abbassare l’Iva, propone il settimanale britannico. Una politica economica da governo mondiale, che però non c’è e non ci sarà. Non c’è nemmeno un governo europeo: all’ultimo Ecofin, infatti, non è passata l’idea francese di “una risposta coordinata alle sfide macroeoconomiche”.
I singoli paesi, dunque, dovranno rimboccarsi le maniche e trovare una serie di soluzioni domestiche che non entrino in conflitto le une con le altre. La Germania ha il bilancio pubblico in ordine: a lei tocca fare ancora una volta da locomotiva, riducendo le imposte sugli affari e sui redditi. La Francia ha già deciso che sforerà il tetto del 3% e se ne infischia dei richiami. L’Italia ha mostrato finora la massima prudenza, apprezzata bon gré mal gré anche da Almunia. Giulio Tremonti dice che i margini sono esigui e difende le sue economie fino all’osso. Guai ad accettare aiuti a pioggia alle imprese, alle categorie, alle corporazioni. L’onda della crisi travolgerebbe ogni diga. E tuttavia qualcosa si dovrà fare, per sostenere una economia italiana che ha cominciato a decrescere prima delle altre, soffre di bassa produttività e di una domanda interna asfittica.
Passata la nottata, salvata la finanziaria dall’assalto ai forni, sarà il momento di una fase due di politica economica, che preveda una manovra di reflazione “compatibile”. E la leva non potrà essere che le imposte. È realistico in Italia ridurre l’Iva? Non bisogna alleviare il fardello che grava sul lavoro? Dove trovare le risorse? La misura più semplice tecnicamente, anche se ardua politicamente, è alzare di un anno l’età pensionabile (il che fa salire automaticamente la produttività del sistema). La via italiana al rilancio della domanda è irta di ostacoli, ma bisognerà imboccarla al più presto. Quanto alla vendetta dei mercati, vera o presunta, il “rischio paese” si riduce non appena comincia la ripresa. Lo sviluppo è il tonico migliore, soprattutto se la malattia è un’anemica stagnazione.