La nostra Costituzione, com’è noto, ha una struttura particolare: i primi 12 articoli contengono i “principi fondamentali”, seguono poi la Parte I (“diritti e doveri dei cittadini”) e la Parte II (“ordinamento della Repubblica”), mentre alcune disposizioni transitorie e finali chiudono il testo. I diritti e i doveri della Parte I sono suddivisi in quattro titoli, relativi ai rapporti, rispettivamente, “civili”, “etico-sociali”, “economici” e “politici”.
In apertura del segmento dedicato a questi ultimi, il Costituente pose, non casualmente, il voto (art. 48), configurandolo come un diritto, declinandone i caratteri (personalità, eguaglianza, libertà, segretezza), e contemplando il suo esercizio come “dovere civico”. Quest’ultima previsione si collega da vicino alla più ampia affermazione contenuta nell’articolo 2, che richiede a tutti l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Di questo diritto-dovere di voto è bene che ciascuno di noi si ricordi, in vista dell’appuntamento del 4 dicembre. Il referendum per il quale saremo chiamati a votare, infatti, non prevede alcun quorum, a differenza di quello abrogativo, a tutti noi più “familiare”, in quanto svoltosi con maggior frequenza.
Ciò significa che al termine delle operazioni di voto, si conteranno i Sì e i No e la prevalenza degli uni o degli altri segnerà le sorti della riforma, indipendentemente dal numero di quanti si saranno recati ai seggi e dalla percentuale rispetto al totale.
Si spiega, così, perché nel 2001, in occasione del primo referendum di questo tipo (sulla riforma del Titolo V, voluta dal Centrosinistra), i 10 milioni di Sì abbiano sancito la conferma del testo votato dal Parlamento, a fronte dei 6 milioni di No, nonostante quasi 50 milioni di elettori potenziali. Così come si spiega perché i quasi 10 milioni di Sì, in occasione del secondo referendum di questo tipo (nel 2006, sulla riforma voluta dal Governo Berlusconi), siano risultati soccombenti rispetto ai quasi 16 milioni di No. La consultazione, cioè, ha prodotto in entrambi i casi i suoi effetti, grazie al voto del 52 per cento degli aventi diritto in un caso e del 34 per cento nell’altro.
La ragione di ciò discende dalla natura di questo referendum, quale strumento oppositivo a difesa della minoranza, non strumento di legittimazione e di ratifica delle scelte parlamentari.
Ma è noto, in vero, che proprio alla maggioranza si deve il tentativo di trasformazione del significato della consultazione, per farne il surrogato di una legittimazione carente fin dal principio in questo Parlamento, a causa della sentenza n. 1/2014 della Corte costituzionale, oltre che la sostanziale questione di fiducia nei confronti del Governo, con una non raccomandabile distorsione degli istituti del diritto costituzionale.
Come che sia, dunque, non essendo previsto alcun quorum, il voto di ogni elettore conterà, sempre e comunque. Parafrasando, se è vero che “basta un Sì”, non è men vero anche che “basta un No”.