Un kamikaze ha fatto una strage in una moschea di Mubi, nel Nord-Est della Nigeria, decine e decine di vittime. Contemporaneamente, in attesa del ritorno in patria dell’ex premier, Saad Hariri, dopo lo strano soggiorno parigino di due giorni, il Libano schiera l’esercito al confine con Israele, mentre a sorpresa Vladimir Putin incontra Bashar al-Assad per rinsaldare pubblicamente e ufficialmente la loro alleanza e sottolineare come la lotta al terrorismo dell’Isis sia ormai alla fine. Ultimo, Donald Trump re-inserisce la Corea del Nord nella lista dei Paesi sponsor del terrorismo, di fatto spianando la strada a quello che è già stato annunciato come il pacchetto di sanzioni economiche più duro della storia.
Cosa lega insieme tutti questi eventi? Apparentemente, nulla. Ma così non è. Partiamo dal fronte russo, il quale ha voluto mandare un segnale chiaro a tutti sulla Siria: non si accettano provocazioni. In primis, quelle che Mosca teme da parte di Israele relativamente alle Alture del Golan. Ma perché, dopo l’incontro fra il presidente russo e Donald Trump al vertice asiatico di Hanoi la scorsa settimana, qualcuno avrebbe ancora interesse a smuovere con il bastone delle false flag il nido di vipere siriano? Perché Mosca sta andando oltre il suo piano di espansione in Medio Oriente e lo sta facendo non tanto e non solo a livello politico, bensì come fornitore di armamenti.
Il 16 di novembre scorso, infatti, a Dubai è terminato il Dubai Airshow 2017, la fiera aeronautica più importante del mondo con 79mila visitatori, su del 20% rispetto all’edizione del 2015. Ma più che chi ha visitato, importa chi ha comprato armamenti: avete idea del controvalore di business? Ve lo dico io: 113,8 miliardi di dollari, tre volte tanto i 37,2 miliardi di controvalore in contratti stipulati due anni fa. E chi ha fatto la parte del leone, incamerando commesse record? La Russia, la quale a Dubai si è presentata in grande spolvero, con almeno nove modelli, tra cui l’elicottero da combattimento Ka-52, il multi-fighter MIG_29M, il sistema missilistico di difesa aerea a lungo raggio S-400 e quello a corto raggio Pantsir S1. E chi ha comprato da Mosca? Tutti i Paesi mediorientali, in primis gli Emirati Arabi Uniti, i quali vantano ormai una partnership consolidata a livello di cooperazione militare con la Russia. Ma il trend è generale. Gli ordinativi militari da parte di Paesi arabi pesano ormai per il 20% dell’export bellico russo, visto che lo scorso anno Mosca ha consegnato armi per 1,5 miliardi di dollari all’Algeria, per 37 milioni all’Egitto, per 374 milioni all’Iran e 300 milioni all’Iraq. A oggi, il portfolio bellico russo nella regione è di circa 8 miliardi di dollari, con il settore che è alla ricerca del ruolo di leader in Paesi come Bahrain, Egitto, Marocco, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.
È un problema: non tanto etico, perché tanto qualcuno le armi le venderà sempre, ma meramente geopolitico ed economico. Quei Paesi, infatti, erano tutti clienti esclusivi degli Usa fino soltanto a cinque anni fa. Piaccia o non piaccia, la grande conquista russa attraverso la campagna siriana è stata questa: guadagnare un’egemonia che prima che politico-diplomatica è anche geostrategica ed economica a livello di warfare, il mitico moltiplicatore militare del Pil, l’amor nostro del complesso bellico-industriale statunitense che, di fatto, regge le sorti del Paese attraverso il suo cane da guardia, quel Deep State incarnato alla perfezione dal Pentagono.
Che fare, quindi? Affrontare la Russia sul terreno militare in Siria è escluso sia per il rischio escalation, sia perché le forze in campo – a oggi – sono impari. Quindi, si va dove c’è mercato: addio Medio Oriente, almeno per ora e via alla conquista dell’Africa. Nelle scorse settimane ho dedicato un intero articolo all’espansione militare Usa nel Corno d’Africa e in quella subsahariana, mostrando chiaramente l’aumento esponenziale di militari statunitensi dislocati in quella parte del mondo, un numero passato dal 3% del totale del 2013 all’attuale 17% in pochi anni. Oggi dobbiamo registrare il dislocamento di altri militari Usa in Somalia, il cui numero ha raggiunto oltre le 500 unità: era dal 1993, anno del famoso incidente del “Black Hawk Down” che gli Stati Uniti non erano presenti con questa rilevanza nel Paese africano. E Donald Trump, la scorsa settimana, ha detto chiaramente che la lotta contro il terrorismo in Somalia è divenuta una priorità americana.
Contestualmente, ecco che in Nigeria il terrorismo jihadista di Boko Haram e consociate, pare tornare in grande stile: e parliamo del più popoloso, benestante e ricco di petrolio Paese africano. Nonché, forse quello con l’esercito più grande, potente e corrotto del Continente. E cosa serve a un Paese preso di mira dal terrorismo? Armi e intelligence per sconfiggerlo. E la questione israelo-libanese? Dopo il fallimento della riunione straordinaria della Lega Araba tenutasi domenica su richiesta dell’Arabia Saudita, al fine di ottenere una condanna ufficiale e unanime dell’espansionismo iraniano nel mondo arabo, qualcuno ha deciso che è giunto il momento di alzare il tiro. Ma, attenzione, non servono i missili veri per certe cose, basta la percezione che la politica – e, soprattutto, i mercati – ottengono da certe mosse. E sapete quale potrebbe essere l’esito potenziale di un conflitto diretto fra Arabia Saudita e Iran, con Israele parte in causa in chiave anti-Hezbollah, vista l’apertura senza precedenti del capo di Stato maggiore israeliano verso Ryad in fatto di collaborazione militare e di intelligence della scorsa settimana? Il petrolio a 300 dollari al barile, stando almeno alle prospettive rese note ieri dall’analista russo Mikhail Mashchenko.
Attenzione, ho detto potenziale, anche perché ritengo pressoché impossibile un conflitto diretto fra le due potenze. Ma basterebbero truppe in mobilitazione, minacce diplomatiche, l’intervento allarmato dell’Onu e le quotazioni del greggio potrebbero finalmente sfondare la quota psicologica dei 60 dollari al barile per il Wti, mandando in soffitta le preoccupazioni di budget dell’Opec e dei suoi affiliati, Arabia in testa. Siamo dentro un enorme risiko geofinanziario e geopolitico, la versione – anzi, la prospettiva – tristemente pragmatica della famosa “Terza guerra mondiale a pezzi” evocata da Papa Francesco. Tout se tient, Africa e Medio Oriente sono i veri ombelichi del mondo. Anzi, degli interessi di quello sviluppato. A Est come a Ovest.
Che dite, ho dimenticato la mossa di Donald Trump sulla Corea del Nord? Quella non rappresenta una novità, né un’escalation: al pari del Russiagate è lo spaventapasseri con cui tenere occupata l’opinione pubblica Usa fra una partita di football e uno scandalo sessuale. Sta arrivando la grande batosta finanziaria, serve panem et circenses a volontà.