Mentre, tra una coda e l’altra per l’iPhone 6, l’Occidente si straccia le vesti per i giovani di Hong Kong, sottotraccia una nuova crisi sta prendendo forma, proprio in quell’area. Le ratio di debito nei Paesi asiatici in via di sviluppo hanno infatti superato i picchi raggiunti quando la precedente crisi esplose nei tardi anni Novanta, con le aziende che si sono finanziate con somme senza precedenti in dollari, lasciando la regione altamente vulnerabile a qualsiasi mossa di contrazione monetaria della Fed.
Stando a un report di Morgan Stanley, il debito estero dei Paesi asiatici è salito negli ultimi dieci anni da 300 miliardi di dollari agli attuali 2,5 triliardi, creando il rischio concreto di uno shock valutario se il dollaro dovesse continuare a salire, rompendo il livello massimo da quattro anni a questa parte e sfondando i punti chiave di resistenza tecnica. Con l’esclusione del Giappone, infatti, il gap credito/Pil dei paesi asiatici ha raggiunto livelli superiori a quelli del 1997, un qualcosa che deve far temere e parecchio se posto in relazione con il super-dollaro di questi giorni.
Per la banca d’affari americana, quanto sta accadendo ha forti similitudini con il caso di Northern Rock nel 2007: le banche locali hanno infatti abusato dei mercati di capitali, espandendo il credito molto più rapidamente della crescita dei depositi, di fatto divenendo a rischio di solvibilità a causa di assenza di capitale liquido se la crisi si concretizzasse. Il misuratore principale di questa situazione è proprio il gap tra credito e Pil, ovvero la cartina di tornasole di come l’espansione dei prestiti abbia sopravanzato il sottostante trend di crescita dell’economia: nel 1997, il picco di quella ratio toccò il 10%, mentre oggi, sempre a causa del diluvio di liquidità che giungeva da Occidente grazie alle politiche espansive delle banche centrali e da quella cinese sotto il precedente Governo, il gap è già a quota 15%, prova chiara dell’esaurimento del credito a fronte di una produttività in stallo e di un rallentamento dell’economia nell’intera regione.
Il team di analisti valutari di Morgan Stanley ritiene che l’area potrebbe essere colpita su due fronti: uno squeeze del credito legato all’aumento dei tassi Usa, che farebbe salire il costo del finanziamento in tutto il mondo, e un altro squeeze sul tasso di cambio legato a posizioni ribassiste sul dollaro. Di fatto, una variabile che aggrava l’altra. Di più, gli analisti tecnici della banca d’affari ritengono che il dollaro stia per rompere il suo trend ribassista trentennale, proprio grazie all’atteggiamento più da falco della Fed: il dollar index – un paniere che comprende diversi tassi di cambio del biglietto verde – dovrebbe salire fino a 92 entro il prossimo anno, se riuscirà a rompere il punto di resistenza posto a 87. Una mossa tale sarebbe comparabile allo shock globale del dollaro che causò disastri non di poco conto vent’anni fa.
La Asian development bank (Adb) la scorsa settimana ha messo in guardia dal fatto che l’area debba prepararsi per una contrazione della liquidità e possibili fughe di capitali a ridosso del termine del Qe statunitense di fine ottobre: «Se il mercato obbligazionario della regione è rimasto calmo per tutto il 2014, ora i rischi stanno salendo, il peggiore dei quali è un aumento anticipato dei tassi da parte della Federal Reserve». Sempre la Adb sottolinea che, tracciando il proprio Bond Monitor, i Paesi emergenti dell’Asia hanno emesso la somma record di 1,1 triliardi di dollari di obbligazioni denominate in valuta locale nel secondo trimestre di quest’anno, portando lo stock totale a 7,9 triliardi di dollari: la gran parte di questo debito, però, è con scadenza inferiore ai tre anni, quindi con forte criticità sul roll-over. Oltretutto la somma non include gli 1,5 triliardi di dollari di prestiti bancari cross-border e gli oltre 1,2 triliardi di obbligazioni in valuta estera, molte delle quali in dollari e detenute da aziende locali.
L’emissione obbligazionaria nell’area lo scorso anno è salita del 36% in Vietnam e del 32% a Hong Kong, mentre proprio la Cina recita la parte del leone per quanto riguarda i bond in circolazione: soltanto la China Railway conta per qualcosa come 975 miliardi di dollari di debito denominato in yuan e la China State Grid per 415 miliardi. La Banca per i regolamenti internazionali (Bri), non a caso, ha dedicato il suo ultimo report trimestrale al crescente utilizzo della leva e all’indebitamento in dollari dei mercati emergenti, specialmente in Asia: stando a loro calcoli, i prestiti cross-border alla Cina sono cresciuti del 49% a quota 1 triliardo di dollari nell’anno conclusosi lo scorso marzo. Per la Bis, «il denaro ultra-facile che ha inondato i mercato ha portato a una richiesta monodirezionale verso il rendimento, portando enormi flussi di investimento verso i mercati emergenti. In molte giurisdizioni, le grandi aziende sono volontariamente entrate nel tunnel dei bassi tassi di interesse a livello globale e hanno enormemente aumentato la loro emissione internazionale di debito. Questa scelta potrebbe essere fonte di potenti feedback in caso di shock sui tassi di cambio o di interesse. Tutto questo ci appare familiare, le danze continuano fino a quando la musica non si ferma. I mercati non saranno più così liquidi quando ci sarà maggior bisogno proprio di quella liquidità e purtroppo l’illusione della liquidità permanente oggi è molto più diffusa e prevalente di quanto non fosse in passato».
In netto contrasto con quanto accaduto sul finire degli anni Novanta, gli Stati asiatici si sono finanziati a debito ma nelle loro valute e hanno quindi uno stock di debito estero non enorme, a fronte invece di solide riserve, ma la Bri teme che la regione potrebbe essere vulnerabile attraverso altri canali, ad esempio l’indebitamento privato in dollari o l’estrema sensibilità all’aumento dei tassi di interesse sul debito locale. D’altronde, l’ultima crisi asiatica legata proprio ai timori per il “taper” della Fed è recente, ovvero del maggio-giugno dello scorso anno, quando i timori che la Fed agisse in anticipo diedero vita al cosiddetto “taper tantrum” che innescò enormi fughe di capitali, costringendo le banche centrali a manovre spericolate per bloccare la caduta libera delle loro valute: nonostante questo, passata la buriana, si è continuato a creare montagne di debito, grazie ai soldi facili garantiti da tassi mediamente all’1% a livello globale.
Ora siamo più o meno nella stessa situazione: la Fed, nella sua ultima riunione, ha fatto capire tutto e il contrario di tutto, non escludendo però un aumento dei tassi più rapido e netto all’inizio del prossimo anno. Domani il dato sull’occupazione Usa potrà dirci qualcosa di più, ma il problema è che chi opera sui mercati non attende le decisioni, si muove in anticipo per evitare di restare con il cerino in mano. Esattamente come nel maggio-giugno dello scorso anno, quando di fatto il “taper” non era nemmeno iniziato. E c’è di più ad aggravare la situazione, un qualcosa che la Cina teme forse più della bolla del credito: lo schianto del mercato immobiliare e del comparto costruzioni in genere, il vero driver della crescita interna.
Stando a dati resi noti ieri da Soufun, il più grande sito cinese dedicato al mercato real estate, le vendite di terreni sono crollate del 22% a 1,7 triliardi di yuan nel 2014: di più, Bloomberg conferma che il calo in 300 città cinesi è stato del 50% se annualizzato, raggiungendo quota 415,9 miliardi di yuan nel terzo trimestre, mentre i terreni a uso residenziale hanno conosciuto un calo di oltre il 50%, raggiungendo quota al ribasso di 265,3 miliardi di yuan sempre nel terzo trimestre. Ma al di là del ricasco sul dato della crescita, questa situazione rischia di diventare esplosiva soprattutto a livello sociale, come ci mostra il grafico a fondo pagina: se infatti negli Usa le famiglie vedono gli strumenti e i prodotti finanziari come assets principale dei loro investimenti, addirittura al 70,3% del totale, in Cina è proprio la proprietà immobiliare il “tesoretto” dei cittadini, con una quota percentuale sul totale dell’investimento pari al 74,7%.
Se il trend resterà questo, cosa pensate che accadrà quando qualche centinaio di milioni di cinesi si sveglierà un mattino e si renderà conto che ciò in cui avevano riposto le loro aspettative per il futuro è in caduta libera? Quindi, Pechino non può permettersi contagi di dissenso da Hong Kong non tanto e non solo per la strategicità della ex colonia ma per il potenziale detonante di quanto potrebbe accadere in patria sulla scia del malcontento. Gli Usa questo lo sanno benissimo: il piano è chiaro, attaccare prima la Russia per rompere ogni possibile legame strategico con l’Europa e poi per avvicinarsi al bersaglio grosso, il competitor globale diventato con il passare del tempo sempre più scomodo. I prossimi dati sulla detenzione estera di debito Usa ci diranno se qualche contromossa è già in atto, di certo per ora resta l’azzardo e la pericolosità estrema di quanto sta accadendo.
(2- fine)
P.S.: In questo articolo in due puntate ho cercato di spiegarvi le ragioni geofinanziarie ed economiche che starebbero alla base dell’appoggio Usa al movimento di protesta di Hong Kong in chiave anti-cinese, ma c’è anche dell’altro, che ho volutamente estrapolato dal contesto generale e rinchiuso in questo post scriptum. Quanto sto per dirvi è stato pubblicato dal blog China Real Time del Wall Street Journal, non da qualche sito sovversivo. Stando alla denuncia di un funzionario cinese, Wen Wei Po, lo spontaneismo del leader della protesta, Joshua Wong, sarebbe da mettere quantomeno in dubbio. Il diciassettenne, infatti, sarebbe stato identificato e attenzionato da forze Usa già tre anni fa, periodo durante il quale avrebbero lavorato per coltivare quella che veniva già definita un “superstar politica”. Wong, inoltre, avrebbe preso parte a parecchi incontri presso il consolato Usa ad Hong Kong con personale di alto livello e avrebbe goduto di donazioni da parte degli Usa. E ancora, nel 2011 la famiglia di Wong trascorse una vacanza a Macao su invito della Camera di Commercio statunitense e soggiornò presso la “Venetian Macau”, di proprietà della Las Vegas Sands Corporation.
Ma non basta, pare che la Cia abbia compiuto più di uno sforzo per infiltrare le istituzioni scolastiche di Hong Kong attraverso l’Hong Kong-America Center, un gruppo presieduto dall’ex diplomatico Usa, Morton Holbrook, per promuovere i legami tra l’ex colonia britannica e gli Usa. Come se questo non bastasse, la Cia avrebbe addestrato una nuova generazione di contestatori attraverso viaggi studio negli Usa, al fine di creare la base per future “rivoluzioni colorate” sull’Isola. Non vi basta? Dietro il movimento “Occupy Central” si nasconde un enorme network di supporto politico, finanziario e mediatico straniero che annovera il Dipartimento di Stato Usa, il suo controllato National Endowment for Democracy (Ned) e il sussidiario di quest’ultimo, National Democratic Institute (Ndi). Proprio una protesta spontanea per la legge elettorale…