Alla riunione primaverile degli organi di governo della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, il Presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha detto che sta ai greci (Governo, Parlamento, società civile) dare una risposta adeguata alla grave situazione di indebitamento e crisi in cui versa il Paese. Draghi ha anche aggiunto che se la Grecia deciderà di uscire dall’unione monetaria (e o sarà di fatto esclusa a causa della reintroduzione di pesanti controlli dei cambi), “l’Unione europea si troverà in acque inesplorate”.
Non è questa la sede per tracciare la vicenda dell’adesione della Repubblica ellenica all’Ue prima e all’unione monetaria poi. Indubbiamente, non è chiaro se ci fossero le basi per l’ingresso della Grecia nell’Ue. È invece evidente che non ci fossero quelle per l’adesione all’unione monetaria: lo ha documentato un dettagliato rapporto dell’Eurostat, ma allora la Commissione europea ha scelto di sostituire il management dell’Eurostat (che aveva fatto il proprio dovere, come sei anni dopo decise la Corte di giustizia europea, imponendo il pagamento dei danni morali ai dirigenti Eurostat) e aprire le porte a un’Atene che poco ha a che fare con quella di Pericle studiata a scuola e molto invece con il mondo levantino del gioco delle tre carte.
Acqua passata, si direbbe. Ma a fronte del disastro greco, che minaccia “acque inesplorate” per l’intera Ue, la Bce e il suo Presidente, come ha scritto l’edizione on line di Repubblica, debbono tirare le conseguenze e rassegnare il mandato. Infatti, il pilotaggio della crisi da parte della Bce è stata una determinanti dell’aggravarsi della situazione dal 2009 a oggi, in gran misura causata dal salvataggio delle banche greche iper-indebitate effettuato dai contribuenti di altri Stati Ue (gli italiani rischiano di perdere 30 miliardi di euro), mentre i Governi e i Parlamenti greci si baloccavano senza effettuare alcuna riforma.
Proprio mentre Draghi (ormai persa gran parte della propria credibilità) lanciava da Washington “grida manzoniane” unitamente alla confessione di non essere in grado di pilotare nella tempesta di mare, dall’ufficio studi della Bce veniva diramato il Working Paper No.1780 a firma di Dimitris Christopoulos della Pantheon University di Atene e di Peter McAdam dell’Università del Surrey (in prestito alla Bce) in cui, con toni alla Thomas Piketty, si sostiene che “la stabilizzazione finanziaria aggrava le ineguaglianze”. Il lavoro propone un nuovo indice statistico che, se applicato alla Grecia, lascerebbe le cose come stanno – anzi comporterebbe altre spese pubbliche (del resto dell’Europa) per dare “una forte rete di salvataggio ai meno abbienti”. Mentre chi può porta euro all’estero. Che un documento del genera esca il 17 aprile dalla “pancia pensante” della Bce è quanto meno imbarazzante e dovrebbe indurre il management a chiedersi se è ancora in controllo dell’istituzione.
Ma lasciamo la Bce ai sui problemi – tra cui un’unione bancaria che nasce priva di una tre gambe e in cui una seconda è talmente malmessa da essere impraticabile – e torniamo alla Grecia. Le scadenze del debito sono riassunte in questi due grafici. Essi esprimono le scadenze del debito greco in relazione ai vari anni e ai rispettivi creditori. Il primo riguarda tutte la scadenze sino al 2055; mentre il secondo il nodo immediato le scadenze immediate nel 2015.
I grafici sono tratti dal Wall Street Journal. Mostrano come alcune settimane fa, se invece di ciurlare nel manico (ma il Governo greco è debole come lo sono tutti quelli autoritari che fanno i guasconi), si fosse deciso di rimborsare immediatamente il debito con il Fondo monetario (molto caro) e subito dopo quello con la Bce (abbastanza caro) e successivamente chiedere un allungamento delle scadenze agli Stati creditori (tra cui l’Italia), affrontando al tempo stesso i nodi dell’economia reale, simulazioni dei 20 maggiori istituti econometrici privati internazionali, pubblicate a fine marzo, suggerivano che ciò avrebbe potuto provocare una “svolta”, con una crescita attorno all’1% nell’anno in corso.
Invece, Tsipras e Varoufakis non soltanto non hanno fatto nulla in tal senso, ma hanno perso tempo e buttato a mare il capitale di simpatia creato con il loro modo di fare un po’ descamisados . Lo hanno dilapidato prima prendendo impegni (di presentare programmi concreti e specifici per questa o quella data) mai mantenuti, ritirando fuori, poi, il contenzioso dei danni di guerra con la Germania, facendo, infine, intendere che sarebbero andati a flirtare con un Putin, il quale li ha degnati di tè e sorrisi senza neanche far loro gustare vodka e caviale (e facendo intendere che un calcio nel sedere non sarebbe stato così improbabile). Principalmente, però, non sono stati in grado di giocare a due livelli trovando un equilibrio tra “reputazione” con i loro creditori e “popolarità” con i loro elettori. Ora contano quasi esclusivamente sul timore che i loro creditori avrebbero degli effetti dell’uscita delle Grecia dall’eurozona sul resto dell’area. Un timore molto sopravvalutato, dato che la storia economica degli ultimi cinquant’anni è piena di unioni monetarie che si sono sfasciate senza fare danni eccessivi.
A Washington Varoufakis ha sostento che la soluzione non può che essere europea. Se ciò vuol dire altre sovvenzioni dai contribuenti europei si sbaglia di grosso. Forse, si potrebbe pensare a un programma analogo a quelli effettuati da Banca monetario e Fondo monetario per la remissione del debito dei Paesi più poveri e più indebitati. Ciò comporta che un delegato del Fondo monetario e della Banca mondiale venga “stazionato” ad Atene per verificare l’attuazione del programma di riassetto strutturale. Varoufakis potrebbe tornare a fare il professore a contratto alla Università del Texas. Se lo riprendono.