«Non mi diverto a mettere le tasse, ma debbo intervenire per porre rimedio a responsabilità del passato». Mario Monti cambia marcia. Legna come mai prima e lo fa contro un partito solo, abbandonando quel metodo “un tanto per ciascuno” per non far male a nessuno, che aveva caratterizzato i suoi primi cinque mesi, sin dall’insediamento. Legnate, stavolta, tutte contro il Pdl.
Un errore aver tolto l’Ici tre anni fa senza valutarne le conseguenze. E Berlusconi è servito. «Sdegno» per chi ha ipotizzato una compensazione fra crediti verso la Pubblica amministrazione e tasse da pagare. Ed è servito pure Alfano. «Puerile» dire che non viene usato il pugno di ferro con l’Europa da parte di chi su questo fronte ha prodotto solo inutili proclami. E così è a posto anche Tremonti. O Brunetta, che aveva lamentato proprio questo. E ancora. Non si può invocare di tagliare la spesa e tenere bloccata la Rai che mangia soldi senza risponderne a nessuno. E così è servito tutto il Pdl, Gasparri in testa, autore della legge che non si è avuto la forza di emendare con un passo indietro a Viale Mazzini della politica lottizzatrice e spendacciona.
Se sia un segno di forza o di debolezza, questo mutamento di toni e di strategia del premier, lo capiremo dalle dinamiche dei prossimi giorni, soprattutto quelli immediatamente successivi alla campagna elettorale che potrebbe mettere in fibrillazione ulteriore l’ala del Pdl che rema contro, in cui si mescolano nostalgici di Berlusconi e della fiamma tricolore.
Al tempo stesso si potrà in breve capire se il mezzo rimpasto camuffato che è stato realizzato, puntellando la coalizione con tre tecnici ulteriori di profilo elevatissimo (Bondi, Amato e Giavazzi) segnerà l’atteso cambio di passo sulla spesa e sulla crescita (le cose viaggiano indissolubilmente insieme) o se si rivelerà solo una mossa disperata, l’ultima prima di arrendersi alla superiorità degli eventi.
Di sicuro Monti stava rischiando di vivacchiare e un esperimento come il suo non poteva concedersi un lento scivolamento su questo piano inclinato senza reagire, senza rilanciare. L’avvitamento dei partiti rischiava infatti di rivalersi e ripercuotersi sulla navigazione del governo a suon di veti incrociati.
Venerdì dalle parti del Quirinale si era rivisto dopo 5 mesi dai noti fatti Silvio Berlusconi, accompagnato come ai bei tempi da Gianni Letta. La “colazione di lavoro” sul Colle era servita a chiarire almeno due cose. La prima: che il Pdl non punta al voto anticipato, e c’è da crederci visto lo stato dei sondaggi che ormai nemmeno il Cavaliere nasconde.
La seconda: che Berlusconi avrà anche passato il testimone ad Alfano, ma – se non si era capito – l’ultima parola, quando il gioco si fa duro, spetta ancora a lui. L’ex premier era andato insomma a ricordare a Giorgio Napolitano – che la memoria ce l’ha ancora buona di suo – che è stato lui con il suo passo indietro e con la leale collaborazione successiva ad aver permesso il decollo del governo Monti.
E quindi ora non gliela si può fare impunemente sotto il naso, ridisegnando l’articolo 18 sotto la pressione della Cgil; rimettendo mano alle frequenze del digitale che da lui erano state assegnate a gratis; ripristinando la tassa sulla prima casa sulla cui cancellazione il Pdl aveva costruito la sua vittoria elettorale; e soprattutto riprendendo con più vigore di prima l’offensiva giudiziario-mediatica della magistratura milanese (e non solo) con nuovo, ampio, cascame di intercettazioni sui giornali e sui siti online.
Il colloquio sul Colle si era chiuso così così, in tono con il clima incerto di quest’ultimo mese, in cui nessuno dei contraenti dell’anomala maggioranza arriva a minacciare la rottura, ma nessuno assicura nemmeno navigazione tranquilla, con l’eccezione del solo Casini.
E a proposito di quest’ultimo, è curioso notare un fenomeno similare a quello del Pdl: tutte le cariche dell’Udc sono state infatti azzerate, ma resta più che mai in sella l’unica statutariamente evanescente e che dunque non può essere azzerata, quella del leader: Casini, appunto. Anche nell’Udc, insomma, il leader che muove i fili resta lo stesso anche se lascia.
Ed ecco la Lega e le dimissioni-non-dimissioni di Umberto Bossi a completare il quadro di una politica che fatica a rinnovare sé stessa anche quando i capi lasciano, affogata com’è nella crisi di partiti che di democratico hanno poco e dunque, pure a voler cambiare facce, non sanno neanche più qual è il percorso per arrivarci.
Si è arrivati dunque nel peggiore dei modi, in un clima largamente confuso e sfilacciato, alla madre di tutte le riforme, quella revisione della spesa (“spending review”) che richiederebbe invece il massimo di consapevolezza condivisa. Chissà, forse si tratta solo di far passare questa settimana di campagna elettorale in cui ognuno ha bisogno di marcare il territorio per caricare le rispettive tifoserie, ma l’impressione ormai netta è che si sia chiusa una fase del governo Monti, e se ne apra un’altra dall’esito ancora incerto. Ieri, però, abbiamo capito che il premier, piaccia o non piaccia, è intenzionato a giocarsela per intero e chi punta a logorarlo non avrà vita facile.
Intanto, però, la gente è allo stremo, le famiglie sono in ginocchio subissate dai rincari, primo fra tutti quello della benzina, che è alle stelle e per di più – mi limito a Roma – non c’è neppure la parvenza di un investimento sul trasporto pubblico, che invece va sempre peggio mentre il biglietto che sta per aumentare del 50 per cento (da un euro a un euro e mezzo). Ma il segnale più inquietante, nel giorno della festa del lavoro è la spirale dei suicidi di imprenditori e lavoratori, una questione che toglie il sonno a ciascuno di noi e soprattutto dovrebbe toglierlo ai responsabili del governo.
I quali, sono certo, vivono con grande angoscia questa situazione ma non appaiono ancora in grado di assumere un’iniziativa credibile per farvi fronte, tanto che l’omissione da parte di Monti di ogni riferimento a questo spaventoso fenomeno è risultato senza dubbio il neo più grave di una conferenza stampa che per il resto, ieri, non ha certo difettato per coraggio e chiarezza sul come uscire da una fase, lo diciamo per gli amanti del genere, che iniziava a ricordare Antonio Maspes, il re del surplace. Solo che non siamo al velodromo Vigorelli, ma sul ciglio di un burrone dove il surplace è un esercizio ad altissimo rischio.
Come sapranno i nostri lettori l’altra volta abbiamo parlato di una classe dirigente che non appare degna di un paese che, se si salverà, lo farà solo grazie alla gente semplice. Ma non voleva essere antipolitica. E se era “anti” era anti tante cose, non solo la politica. Perché è a tanti livelli che si registra oggi, nei posti di responsabilità, un’insopportabile inadeguatezza alle sfide drammatiche dei nostri tempi.
Ma ora il destino torna nelle nostre mani. L’illusione ventennale di poterci dedicare alle nostre cose quotidiane lasciando tutto in gestione alla ditta appaltatrice della gestione politica oggi non tiene più. L’eroismo quotidiano di tante famiglie, di tante imprese, di tante associazioni, o trova modo di contaminare positivamente l’intero Paese o finirà per subire il marcio che attraversa la classe dirigente, marcio che ora arriva impietosamente alla luce. Certo, anche questo giustizialismo a suon di inchieste e colloqui spiati non convince. Ma in questa scollatura fra classe dirigente e gente comune, in questo grave deficit di partecipazione che si registra, c’è un modo – chiedo – oltre questo, che non ci piace, per porre rimedio ai deliri di onnipotenza della classe dirigente politica in modo fisiologico e democratico? Purtroppo no, al momento no.
Faccio un esempio: bene, benissimo la proposta di Rutelli di destinare i milioni non ancora sottratti dal tesoriere Lusi ai cosiddetti “esodati” rimasti senza stipendio e senza pensione. Ma possibile, mi chiedo ancora, che nessuno adotti comportamenti virtuosi se non sull’onda delle deprecate inchieste e relative pubblicazioni sui giornali? Ecco il punto: in un Paese che quasi non conosce più la partecipazione, il confronto, il controllo dei comportamenti nelle sedi competenti, ci si affida al buco della serratura, alle inchieste, ai colloqui spiati.
Il sistema, insomma, non regge più, non per colpa solo della politica o dei politici. E non ha neanche, in sé stesso, i mezzi per cambiare. Ma dovrà trovarli, prima che sia troppo tardi, o prima di finire nelle mani sbagliate. Per ora abbiamo tutto il dovere di sperare che Monti riesca nel suo tentativo. Starà anche sbagliando, ma per la nostalgia c’è tempo: con quelli che ora lo criticano non eravamo certo messi meglio.