In questo periodo va di moda il concetto di post-verità, ovvero una qualcosa di verosimile che spacciato in modo virale come vero, soprattutto sui social network, assume contorni di credibilità tali da diventare la realtà ufficiale. Lo hanno usato per cercare di screditare Donald Trump, inventandosi la narrativa degli hacker russi e poi il dossier con le prostitute moscovite, ma, come ci mostra la realtà, non è servito. Ma la post-verità vale anche in economia, eccome se vale. Vi faccio un esempio. È di ieri la notizia che il PMI composito preliminare dell’eurozona a gennaio, sebbene leggermente inferiore alle attese, indichi un inizio d’anno solido per l’area euro. L’indice si è attestato, infatti, a 54,3 punti, al di sotto dei 54,4 di dicembre e dei 54,6 del consenso: anche quello relativo al settore dei servizi è sceso dai 53,7 punti del mese precedente a 53,6, al di sotto dei 53,8 stimati del consenso ma comunque in espansione sostenuta. Quello manifatturiero, invece, si è attestato a 55,1 punti, in rialzo rispetto ai 54,9 di dicembre e del consenso.
«Forte inizio del 2017 per l’economia dell’Eurozona, con il PMI preliminare di gennaio dell’eurozona che sta segnalando una crescita considerevole del Pil trimestrale dello 0,4%, con un’espansione generale sia nel settore manifatturiero sia in quello dei servizi», ha commentato Chris Williamson, capo economista di Ihs Markit, puntualizzando che forse lo sviluppo più incoraggiante è la crescita delle assunzioni. «Grazie all’aumento dell’ottimismo l’indagine di gennaio ha registrato l’aumento mensile maggiore dei livelli occupazionali in nove anni», ha chiosato. E ancora: «Le imprese campione hanno sottolineato che i rischi politici continuano a essere largamente evitati e che si stanno concentrando invece sulla crescita delle loro vendite durante i prossimi dodici mesi». Insomma, si riparte finalmente.
Esattamente nelle stesse ore, però, scoprivamo che oggi nell’Ue un cittadino su quattro è a rischio di povertà o esclusione sociale e che la povertà lavorativa – il livello salariale estremamente basso – riguarda all’incirca il 10% della popolazione occupata. Anche la povertà dei bambini, prossima al 27%, è motivo di particolare preoccupazione e l’Europa deve trovare una risposta a tutto questo: la situazione è tale da rendere l’agenda sociale non più rinviabile. Chi lo dice, la Cgil? No, la Commissione Ue che propone agli Stati membri di iniziare a lavorare a un mix di misure che preveda sostegno a salari adeguati, garanzia dell’accesso a servizi essenziali come ad esempio il diritto alla casa, e e misure di contrasto alla povertà.
Tutte misure che laddove sono state adottate, hanno prodotto risultati, ma «l’accesso a questi servizi è spesso frammentato, rendendo difficile per le persone avere l’aiuto di cui hanno bisogno», ha ammesso l’organismo massimo dell’Ue. Quindi, qual è la verità? Ma non basta. Vogliamo parlare di politica monetaria? Pronti. Il Quantitative easing della Bce ha causato un deprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro del 6,5% dal 2014: è quanto sottolinea in uno studio la Bundesbank, aggiungendo che tre dei sei più grandi crolli a livello giornaliero nella storia della moneta unica sono collegati proprio al programma di acquisti di asset dell’Istituto centrale di Francoforte.
Il secondo calo intraday più consistente dell’euro, ha puntualizzato la Buba, è avvenuto nella seduta successiva all’annuncio del Qe nel gennaio del 2015. E, come vi dico da giorni, la risalita relativamente rapida dell’inflazione in Germania (potrebbe arrivare al 2% a gennaio per effetto della risalita dei prezzi dell’energia, toccando il target perseguito dalla Bce per la prima volta in quattro anni) ha moltiplicato le richieste da parte tedesca alla Bce affinché ritiri il massiccio programma di stimolo monetario, dal momento che i rendimenti reali dei risparmi sono negativi e si teme che Francoforte possa ora superare il target d’inflazione perseguito dall’istituto, ovvero un livello “inferiore ma vicino al 2%”.
E cosa ha risposto Draghi a queste critiche? «Abbiate pazienza», è stato l’appello del presidente della Banca centrale europea ai suoi critici, soprattutto tedeschi, mentre annunciava come previsto che la politica monetaria resterà invariata, nonostante un aumento dell’inflazione nel mese di dicembre che dovrebbe continuare nella prima parte del 2017. Un appello che difficilmente verrà ascoltato, specialmente in un anno elettorale, a giudicare dalla prima pagina del quotidiano popolare Bild, il quale l’altro giorno ha lanciato l’allarme sull’inflazione, che in Germania ha toccato l’1,7%, con il prezzo dei cetrioli più che raddoppiato.
Draghi ha ricordato che, se l’inflazione è salita nell’eurozona all’1,1% dallo 0,6% in un solo mese e si prevede aumenti ancora, questo è un effetto quasi del tutto dovuto all’aumento del prezzo del petrolio e il dato di base, depurato dall’energia e dagli alimentari, resta «debole e non dà segnali convincenti di una tendenza al rialzo». Qual è la verità, anche in questo caso? In compenso, è passato sotto silenzio un dato senza precedenti: per la prima volta, abbiamo la quantificazione di quanto costerebbe all’Italia uscire dall’eurozona. E la cifra non è frutto delle alchimie di qualche sovranista, ma l’ha comunicata Mario Draghi in persona, rispondendo all’interrogazione presentata dagli europarlamentari Marco Valli e Marco Zanni (Movimento Cinque Stelle). «Se un Paese lasciasse l’eurosistema, i crediti e le passività della sua Banca centrale nazionale nei confronti della Bce dovrebbero essere regolati integralmente». Tradotto? L’Italia ha nel sistema di pagamenti Target2 un saldo negativo di 358,6 miliardi, stando ai dati più recenti (novembre 2016): un sesto del Pil, per capirci. Nella missiva, Draghi ricorda di avere già precisato a fine novembre che «il recente incremento dei saldi Target2 riflette in prevalenza i flussi di liquidità derivanti dal Programma di acquisto di attività» (Paa), e cioè il Qe varato dalla Bce per risollevare l’inflazione e contrastare i rischi di deflazione. In aggiunta, si legge ancora nella lettera, i saldi Target2 «sono rimasti elevati poiché la liquidità creata dal nostro programma si è concentrata soprattutto in certi Paesi. Questo fenomeno riflette la struttura finanziaria dell’area dell’euro, in cui le banche con modelli imprenditoriali in grado di attrarre maggiori disponibilità liquide sono in genere situate in pochi centri finanziari».
Per la prima volta, abbiamo un costo. Una cifra. Ma dovremmo davvero pagarla in solido? E chi ci obbliga, se decidessimo di scegliere la strada giapponese, ovvero caricare quegli sbilanciamenti alla voce debito pubblico? I mercati ci ucciderebbero? Lo dicono da 30 anni anche del Giappone e l’unico soggetto che sta seriamente mettendo a rischio il sistema non è il mercato ma la Bank of Japan con la sua politica folle di acquisti. Qual è, quindi, la realtà? Io so soltanto tre cose. Primo, come ci mostra il grafico a fondo pagina, l’indice Skew, quello basato sulle opzioni allo Standard&Poor’s e che calcola i rischi di grosse contrazioni di mercato, è ai massimi: siamo a 146 e si va in area di allarme sopra i 110. Solo tre volte si è toccato quel livello negli ultimi 27 anni e guardate quali erano i precedenti.
Secondo, Mohamed El-Erian, guru dell’obbligazionario a Pimco e oggi capo dei consiglieri economici ad Allianz, ieri ha parlato chiaro: «Il mercato sta sottostimando i rischi di improvvisi cambi di politica monetaria». Ecco le se parole: «Più le banche centrali persistono nel loro approccio nonostante i cambiamenti nelle condizioni politiche e fiscali, più grande è la necessità potenziale per uno scostamento improvviso della politica monetaria che, nonostante sia economicamente benvenuto, potrebbe creare caos sui mercati. Ed è una possibilità chiara che gli investitori stiano sottostimando questo rischio, stando alle metriche di mercati, inclusi i misuratori della volatilità implicita». Non lo Skew, però, come avete visto. E ancora: «Mentre il movimento al rialzo dei rendimento sulla curva dei bond governativi Usa potrebbe essere contenuto da flussi di arbitraggio che arrivano da Europa e Giappone, i mercati forex non beneficiano di questa influenza moderatrice. Quindi, il dollaro potrebbe essere in predicato di conseguente volatilità».
Ed ecco la terza cosa che so. Nel settembre del 1986, l’Economist pubblicò il primo Big Mac Index, un indicatore che ci mostra il grado di apprezzamento o svalutazione di una divisa, comparando il prezzo del famoso hamburger nei vari Paesi del mondo. Attualmente, un Big Mac è venduto a 49 pesos in Messico, circa 2,23 dollari, mentre in Svizzera costa 6,50 franchi, circa 6,35 dollari. Insomma, un Big Mac in Svizzera costa 2,8x più che in Messico: certo, c’è differenza tra i due Paesi a livello economico e non solo ma 2,8x è davvero troppo, sintomo che il peso messicano è sottovalutato rispetto al franco svizzero.
La scorsa settimana è stato pubblicata l’ultima versione aggiornata del Big Mac Index e cosa scopriamo: che il dollaro Usa è sopravvalutato rispetto pressoché tutte le monete del globo. Tutte. Canada, Russia, Regno Unito, Sud Africa, Turchia, Polonia, Colombia, Filippine, Australia ed eurozona: il prezzo medio di un Big Mac in questo Paesi è molto più a buon mercato che negli Usa, dove il panino costa mediamente 5,06 dollari. Già questa cifra parla da sola, visto che si tratta di un +17% rispetto al prezzo medio dell’ultima versione dell’indice, quella del gennaio 2013, quando costava 4,37 dollari: il tutto, in un periodo di totale deflazione. In Canada, il prezzo medio del Big Mac è di 6 dollari, circa 4,51 dollari Usa: quindi, il dollaro canadese è sottovalutato di circa l’11% rispetto al cugino a stelle e strisce.
E l’area euro, ciò che ci interessa? Il prezzo medio di un Big Mac è di 3,88 euro, circa 4,06 dollari stando al cambio attuale: e cosa significa? Che, implicitamente, l’euro è sottovalutato del 20% contro il dollaro Usa. Il tutto, con Donald Trump al potere, il quale ha già detto che il dollaro così forte «sta uccidendo le imprese americane». Questa è l’unica verità che conosco: stiamo sottovalutando la guerra valutaria in preparazione. E rischiamo di farci davvero male, Germania in testa.