Era il 1998 quando la prestigiosa Brookings pubblicò un libro dal titolo “Il mito del caos mondiale”, che, rifiutando l’esistenza del caos mondiale, sosteneva la necessità di continuare a gestire le relazioni internazionali attraverso i classici metodi della diplomazia, capacità militare convenzionale e sostegno economico allo sviluppo. Le illusioni clintoniane nel “nuovo ordine mondiale” furono appena scosse dai tragici eventi del Ruanda e della Bosnia. Ma è stato dal 2001 che si è dovuto riconoscere che il caos mondiale era una realtà, tanto vivida quanto tragica. Il crollo delle Torri gemelle di New York ha fatto crollare anche le certezze nelle dottrine internazionalistiche e strategiche fino ad allora prevalenti. Fu così che ai metodi tradizionali è stato affiancato (e a volte sostituito) un apparato per le gestione attiva del caos sistemico mondiale, politico, geopolitico, ed economico-finanziario. Alla minaccia asimmetrica si è risposto con attività di difesa e di offesa altrettanto asimmetriche. Un cambio di paradigma epocale, che è tutt’ora in corso di realizzazione.
Inizialmente gli Usa hanno potuto godere di un vantaggio rispetto a tutti gli altri stati nel mondo, dovuto al fatto di essere il solo centro egemonico – economico-finanziario, militare e politico – e quindi di essere capaci di governare le asimmetrie sistemiche. Il costo di tali operazioni fu sostenibile grazie a un eccessivo effetto di leva finanziaria che esplose nel 2007, mettendo a repentaglio le basi stesse del sistema americano: la credibilità degli Usa fu scossa più che nel 2001 dal vacillare del principio della “democrazia della proprietà” e del meccanismo di credito finanziario.
Inaspettatamente, altri attori internazionali fecero le prime mosse applicando anch’essi soluzioni asimmetriche. Le principali azioni di questo tipo furono: nel 2005, la sconfitta da parte dell’Iran dell’aggressione americana-israeliana alle centrali nucleari iraniane con l’uso del malaware “Stuxnet”, che poi ha dato origine a numerosi “cloni” più evoluti e usati da altri apparati statali e da gruppi criminali e terroristici; nel 2008, la Russia che rispose alle provocazioni fabbricate a Washington in Georgia.
Da allora la competizione, e lo scontro, mondiale tra attività offensive e difensive asimmetriche ha subìto incrementi che erano impensabili. Le “rivoluzioni colorate”, le “primavere arabe”, i pesanti squilibri del sistema finanziario (e le sue conseguenze sociali ed economiche), la proliferazione di gruppi armati criminali e sovversivi (e la possibile saldatura opportunistica tra terrorismi-grande criminalità-taluni apparati di Stato), sono tutte conseguenze dell’espandersi del caos mondiale.
Gli Usa hanno risposto attraverso lo sviluppo incrementale di sofisticate tecniche difensive e offensive capaci di elaborare dati sparsi nella blogosfera, capaci di guidare da remoto le azioni belliche: l’ecosistema cibernetico è stato così militarizzato (non a scopi pacifici). Anche gli altri attori hanno seguito la stessa tendenza (Israele, Cina, Iran, Russia, Siria, ecc.) contribuendo ad accrescere il caos che ha fatto saltare le basi degli accordi diplomatici e talvolta delle alleanze pregresse, anche solo di qualche anno precedenti. La realizzazione di imponenti strutture di “ascolto” dei dati che si affrontano come dei “grandi fratelli”, Wikileaks e il caso Assange, il Datagate e il caso Snowden, lo spionaggio dell’americana Nsa in Germania, sono solo alcuni degli effetti noti della guerra cibernetica in atto. Ma a essi si aggiungono le attività, meno visibili ma molto efficaci, di manipolazione delle informazioni economiche e finanziarie, le applicazioni di manipolazioni sul clima, e l’arcipelago dello spionaggio elettronico industriale e sui dati privati.
In merito alla profonda e irreversibile trasformazione delle relazioni internazionali, avvenuta velocissima negli ultimi 13 anni, segnalo i lavori di Fabio Mini, che nel suo ultimo libro “Soldati” (2014) scrive: «L’apparato delle forze armate non serve più alla difesa della patria. Non c’è un solo soldato a guardare le frontiere e non si sa neppure da chi venga la vera minaccia. Il problema della sicurezza è planetario, per affrontarlo dovremmo integrare le forze almeno in Europa e avere una nostra politica. Lo stesso senso della guerra è cambiato. Si combatte per i cicli produttivi: in tutto il globo e senza fine. Gli eserciti ne escono trasformati. Ai soldati di leva si affiancano i professionisti, ai militari i civili: mercenari o contractors. Il soldato non è più soltanto un guerriero, un tecnico, una spia dell’intelligence. Spesso è un precario fra mercenari a partita Iva. Mandato a uccidere e morire da generali e ammiragli alle prese con bilanci e poltrone. Capire, dall’interno, come sono cambiati i “professionisti della sicurezza” significa anche comprendere i rischi che corriamo. Tutti».
Un caos generalizzato e planetario nel quale si affrontano tutti contro tutti in una fluidità delle relazioni e degli accordi che ha sostituito, rendendole antichi attrezzi, le logiche della sovranità e delle alleanze. Per queste ragioni, la politica estera – i suoi meccanismi e metodi, oltre che i suoi rappresentanti e rituali – se non si adegua al cambiamento già avvenuto e ancora in atto, è diventata inutile se non controproducente.
La giovane (e al momento inesistente) politica estera dell’Ue ha il vantaggio di dover nascere nella nuova era. Le difficoltà strutturali che ne rendono difficile la costruzione sono indubbie. Tuttavia, nessuno degli stati membri da solo avrebbe le capacità finanziarie e tecniche per potersi confrontare pienamente nel caos mondiale. L’ombrello americano della Nato è la soluzione più semplice, ma non sarebbe una soluzione europea. Alla rilanciata pretesa integrazionista americana (Nato e Ttip) la nuova responsabile europea, Federica Mogherini, potrebbe rispondere solo attraverso l’elaborazione di un nuovo concetto strategico europeo, sviluppato attorno all’unico nucleo esistente, cioè l’eurozona.
L’abilità della nuova dirigente si misurerà in base al prodotto strategico che saprà elaborare e alla capacità di negoziarlo con gli stati membri trovando una finestra win-win tra tutti i membri dell’eurozona e l’egemone germanico. In pratica, seguendo la logica che portò al Trattato di Maastricht, si deve arrivare a un trattato strategico per l’eurozona che rafforzi coesione e sussidiarietà per il raggiungimento degli obiettivi interni ed esterni dell’area.
Perché ciò sia possibile, come abbiamo già scritto, è necessario liberarsi dal giogo ideologico neoliberista – questo lo si può fare solo tutti insieme – e si deve al più presto ricostruire un percorso cooperativo con la Russia e con i Brics. Più che nell’apparato burocratico della Commissione – che è un secondo livello del potere – la Mogherini dovrà dimostrare di essere all’altezza del suo ruolo nel Consiglio, dove siedono i rappresentanti dei governi europei. Se riuscirà in questo obiettivo, anche il Parlamento europeo la sosterrà. In caso contrario, le forze centrifughe e periferiche porteranno allo stallo e alla possibile fine dell’esperienza dell’Unione europea, a tutto vantaggio degli integrazionisti americani.
È in questo scenario che devono essere inquadrati gli eventi che si svolgono in Ucraina e nel Medio Oriente, ma anche nell’Eurasia e in Asia meridionale e orientale. L’incapacità dell’attuale politica estera europea ha creato le condizioni per l’intervento asimmetrico americano che ha portato alla guerra civile ucraina, all’annunciata e prevedibile reazione russa, alla rivalità e stallo degli europei.
Da alcune settimane, dopo più di 3.000 morti e l’imposizione di sanzioni alla Russia, l’Ucraina quasi in bancarotta ha accettato di firmare una tregua e iniziare negoziati politici con la Russia. Crisi congelata in attesa dei risultati dei negoziati che non potranno aver buon esito senza la partecipazione costruttiva dell’Ue, che dovrebbe ritirare le sanzioni (finanche la Nato conferma che le truppe russe si sono ritirate dai confini ucraini), ma soprattutto degli Usa. L’Europa, e principalmente la Germania, non hanno alcuna intenzione di ripianare i debiti ucraini (circa 100 miliardi di dollari) e quindi sarebbero favorevoli al ritiro delle sanzioni e ad accettare una soluzione politica che ristrutturasse l’Ucraina, senza la Crimea che è Russia, in uno stato federale e possibilmente neutrale (che era la proposta russa già nel 2013).
Gli Usa, particolarmente l’ala trasversale neocon, per ora non cedono. Tuttavia, Obama sa benissimo che senza il supporto e la collaborazione della Russia la situazione in Medio Oriente non ha soluzione. Infatti, per tentare una soluzione all’attuale pasticcio creatosi con le attività anti-siriane sponsorizzate dall’Arabia Saudita (grazie al principe Bandar), la Siria e l’Iran devono entrare in campo. La Russia è il solo Paese che può facilitare questa partecipazione, mentre allo stesso tempo potrà esercitare debite pressioni su Israele ed Egitto. Insomma, per affrontare il problema saudita e israeliano Obama ha bisogno che la Russia di Putin intervenga a favore della guerra contro le milizie ultra-sunnite dell’Isis e le varie frange qaediste che si agitano in tutto l’arco islamico, dalla Cina all’Africa occidentale.
È probabile che mentre a New York al margine dell’Assemblea generale John Kerry e Sergei Lavrov potranno incontrarsi per spegnere i fuochi fatui della nuova Guerra fredda, d’altro lato l’Iran e l’Arabia Saudita hanno già dato segni di disgelo il 21 settembre scorso con l’incontro tra Saud al-Faisal e Mohammad Javad Zarif. Una situazione fluida con convergenze di opportunità che lascia ancora da risolvere le relazioni tra Qatar e Turchia, e tra Qatar e vari paesi europei all’ombra dei Fratelli Musulmani, per ora ancora in carcere in Egitto.
Senza l’elaborazione di un nuovo concetto strategico l’Europa resterà l’assente principale in tutti questi eventi.