Il G20 di Shanghai non ha dato nessuna spinta al treno dell’economia mondiale in preoccupante rallentamento. L’Italia, che resta il vagone di coda, ha più di altri tutte le ragioni per essere preoccupata. Come ha scritto Domenico Lombardi su Il Sole 24 Ore, c’è una asimmetria tra i grandi paesi che blocca la crescita. Si è formata la convinzione che la politica monetaria abbia raggiunto il limite delle proprie possibilità. I tassi negativi da un lato non riescono a stimolare la domanda effettiva, dall’altro stanno penalizzando le banche che reagiscono frenando l’attività creditizia. Anche se è troppo presto per stringere i cordoni della borsa (l’aumento dei tassi da parte della Fed nel dicembre scorso è stato un errore), la supplenza delle banche centrali è arrivata al capolinea.
Il 10 marzo la Bce dovrà decidere se ridurre ancora i tassi sui depositi (oggi già negativi) e ampliare gli acquisti di titoli comprendendo anche i corporate bond. Draghi è sotto pressione, la Bundesbank vorrebbe quanto meno una pausa aspettando tempi migliori, ma in ogni caso la Bce si è data un limite temporale, esattamente tra un anno, e questo dovrebbe spingere i governi ad attrezzarsi per sostituire lo stimolo monetario con lo stimolo fiscale. Invece, così non è, soprattutto perché la Germania non vuole.
Ancora una volta Wolfgang Schaeuble ha recitato la parte del cattivo e ha ribadito che Berlino non ha nessuna intenzione di aumentare la domanda interna facendo ricorso al deficit spending. Il bilancio pubblico è in attivo e la bilancia dei pagamenti ha un surplus enorme, pari a sette punti di prodotto lordo, eppure Berlino non ha nessuna intenzione di mettere queste risorse a disposizione della crescita nel resto del continente. La Germania preferisce tesaurizzare per se stessa e il proprio futuro. Proprio nei giorni scorsi il ministero delle Finanze ha presentato uno studio secondo il quale nel 2020 il debito tedesco raggiungerà il 200% del prodotto lordo a causa delle tendenze demografiche che faranno esplodere le spese per sanità e pensioni. Una ragione in più per avere il bilancio in ordine, anzi in attivo.
Tutto ciò complica il tentativo del governo Renzi di sostenere la crescita italiana aumentando il disavanzo pubblico. Il ministro Padoan sta cercando lo “spazio fiscale” per ridurre le imposte senza tagliare le spese. L’idea è di sfruttare già quest’anno tutta la flessibilità concessa dall’Ue (Juncker a Roma ha ribadito la promessa), con il consenso degli altri paesi della zona euro. Condizione quest’ultima poco probabile se prendiamo alla lettera la posizione della Germania, che resta l’azionista di riferimento di Eurolandia.
Secondo il documento Ue sull’Italia pubblicato la settimana scorsa, i margini di manovra sono inesistenti se non si riduce la spesa pubblica corrente, non si aggredisce il debito (il rapporto individua le privatizzazioni come strumento principale), non viene aumentata la produttività del sistema (sono necessarie altre riforme per favorire la concorrenza, modernizzare i servizi, ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto). Quando Padoan va al tavolo del negoziato sulla flessibilità, dunque, deve avere alcuni assi da giocare su deficit e debito pubblico, altrimenti la partita è persa in partenza. Inutile vantare piccole concessioni come grandi successi. Lo abbiamo già visto quest’anno: spostamenti da zero virgola non servono a nulla.
Allora, che cosa potrà fare in concreto il governo italiano? Il documento Ue presenta un decalogo non diverso dalle raccomandazioni contenute nella famigerata lettera della Bce dell’agosto 2011. La riforma delle pensioni è stata completata, se vogliamo in modo persino più drastico del necessario; lo stesso vale per il mercato del lavoro (anche se in questo caso gli effetti positivi sono dovuti soprattutto agli incentivi fiscali). Ma tutto il resto (ed è tanto) resta ancora da realizzare ed è improbabile che il governo lo metta in cantiere in un anno segnato da tanti appuntamenti elettorali (dalle comunali al referendum sulla riforma istituzionale), perché si tratta di incidere sulle amministrazioni locali (si pensi, per esempio, alle municipalizzate), sulla spesa che ha un forte potere clientelar-elettorale, sulle rendite e i poteri costituiti.
Con un commercio mondiale in stasi, una Germania intransigente, un mercato politico-elettorale italiano in ebollizione, è realistico pensare che il governo compia scelte dolorose anche se necessarie a cambiare le aspettative sull’Italia da parte di mercati finanziari sempre pronti a gettarsi come locuste sul debito italiano? La domanda è retorica, con risposta negativa.