La crisi sta entrando nella sua fase più devastante, quella nella quale anche i paesi che finora hanno beneficiato della moneta unica non ne beneficiano più, poiché i paesi verso cui hanno sempre esportato non hanno più capacità di spesa e così non acquistano più anche prodotti di qualità. E così si spiega la caduta imprevista (imprevista ai soliti “esperti”) degli ordini industriali in Germania (-2,3%). Ma ormai in tanti paesi la crisi non è più solo economica, bancaria e finanziaria: ormai è una vera emergenza sociale. “Italia senza futuro, c’è rischio rivolta”, così titola un articolo di Repubblica, riprendendo le parole del presidente dei Giovani Industriali, Jacopo Morelli: “Senza prospettive per il futuro l’unica prospettiva diventa la rivolta. Le istituzioni democratiche vengono contestate e possono arrivare alla dissoluzione, quando non riescono a dare risposte concrete ai bisogni economici e sociali”. Parole gravissime, ma in realtà adeguate alla gravità del momento.
Del resto, la rivolta diventa un’ipotesi che si affaccia all’orizzonte delle soluzioni percorribili quando la speranza è ormai svanita e si ha la sensazione che occorra rovesciare tutto, costi quel che costi. E la triste verità ormai emerge anche dalle dichiarazioni ufficiali, come quella del Ministro per l’Economia, Fabrizio Saccomanni: “Crisi peggio del ‘29”. Ma come hanno fatto? Di chi è la responsabilità? Niente di niente su queste domande cruciali, quasi si trattasse di eventi irrimediabili, come una grandinata distruttiva o un terremoto.
Quello che invece, assai tristemente, sta avvenendo è lo scaricabarile delle responsabilità tra le massime istituzioni coinvolte (Fmi, Bce e Ue) nel tentativo di salvataggio della Grecia; tale tentativo ormai si può definire clamorosamente fallito. E il primo a muoversi nel denigrare le politiche di austerità è stato il Fondo monetario internazionale, il quale ha pubblicato un report che segnala i numeri di questo fallimento: invece di frenare la crisi, la caduta del Pil in tre anni (2009-2012) è stata del 17%, mentre il tasso di disoccupazione è salito al 25%.
Ma riprendendo il tema dello scorso articolo, nel quale mostravo i legami tra la preghiera del Padre Nostro, la Dottrina sociale della Chiesa e la questione del valore della moneta, c’è un altro aspetto che occorre sottolineare, non meno grave e denso di conseguenze. In quell’articolo il legame era evidenziato dalla connessione tra la richiesta del pane e il diritto di avere quel pane. E proprio su quel pane, nel momento topico in cui affida agli Apostoli il massimo tesoro, durante l’Ultima Cena, Gesù ripete: “Fate questo in memoria di me”.
Parole celeberrime, sulle quali tanto ha riflettuto la teologia, ma poco la scienza economica. Parole invece degne della massima considerazione, perché riguardano proprio quel Pane del quale lo stesso Gesù aveva affermato la proprietà (“Dacci oggi il nostro pane quotidiano”). Non “fate questo” e basta; ma “fate questo in memoria di me!” Da quel momento, la possibilità di trasmettere quel tesoro è stata innestata tutta nella tensione a tenere presente l’origine da cui è scaturita. La memoria è quindi lo strumento di connessione tra l’origine e qualsiasi momento successivo.
La memoria è un evento che segna nel tempo lo sviluppo dei fatti successivi, influenzandoli qualche volta in modo evidente, il più delle volte in modo misterioso ma innegabile. Di fatto tutta la natura e tutta la vicenda umana è segnata da eventi che nella loro struttura (usando termini matematici che non son alla portata di tutti, anche degli economisti) sono frattali, cioè tendono rendere frequenti fatti che dovrebbero essere eccezionali e rari. Ma soprattutto, per quello che qui ci interessa, tendono a manifestare un fenomeno che potremmo chiamare “memoria degli eventi” o “memoria di quanto accade”.
Così tutto quanto accade, nella sua struttura più profonda, mantiene una sorta di traccia che si ripete nel tempo. Nonostante l’eccezionalità dell’evento, ciò che dovrebbe essere raro e sporadico, a causa di questo “effetto memoria”, tende a ripetersi nel tempo con maggiore frequenza rispetto a ciò che non accade. Questo “effetto memoria” è uno degli effetti ben conosciuti dagli studiosi di matematica, relativamente alle cosiddette distribuzioni a “legge di potenza”. E tali tipo di distribuzioni sono le stesse che si verificano quando si è in presenza di un sistema frattale, come quello che caratterizza i mercati finanziari. Si tratta dunque di un fenomeno conosciuto dalla scienza, anche se normalmente ignorato dagli economisti che assumono posti di pubblica rilevanza. La globalizzazione e la diffusione della tecnologia informatica non ha fatto altro che rendere sempre più frattale anche l’economia reale, cioè sempre più in balia di fenomeni eccezionali, sia positivi (nei periodi di crescita) sia distruttivi.
Nei periodi di crescita economica, come tra il 1995 ed il 2000 e poi tra il 2003 ed il 2007, è stato facile per il potere (politico e culturale) diffondere un senso illusorio di sicurezza. Sembrava che il mondo fosse destinato a una nuova fase di perenne crescita e di sempre maggiore benessere. Addirittura si studiavano e si pianificavano strategie per ridurre la povertà e la fame nel mondo; strategie poi regolarmente fallite nei propri proclami. Infatti, le distribuzioni a legge di potenza favoriscono gli eccessi, in entrambi i sensi: quindi se si favorisce l’accumulo di grandi ricchezze, inevitabilmente si favorisce anche la grande diffusione di povertà. Non si tratta dunque di immaginare i ricchi sempre cattivi: si tratta di essere coscienti del fatto che un sistema frattale, come quello della finanza senza regole e del “libero mercato”, favorisce una distribuzione iniqua delle risorse: è prima di tutto una legge matematica.
Come immaginare allora un sistema economico (politico, sociale) che tenga conto di queste informazioni? Da quale posizione culturale occorre partire per evitare questi eccessi e il loro ripetersi sempre più frequente e sempre più disastroso negli effetti? Il punto da cui partire è quel punto della Dottrina sociale della Chiesa nel quale si afferma il diritto alla proprietà privata, ma sempre subordinata al bene comune. “La tradizione cristiana non ha mai riconosciuto il diritto alla proprietà privata come assoluto e intoccabile”. “L’insegnamento sociale della Chiesa esorta a riconoscere la funzione sociale di qualsiasi forma di possesso privato, con il chiaro riferimento alle esigenze imprescindibili del bene comune […]. La destinazione universale dei beni comporta dei vincoli sul loro uso da parte dei legittimi proprietari. La singola persona non può operare a prescindere dagli effetti dell’uso delle proprie risorse, ma deve agire in modo da perseguire, oltre che il vantaggio personale e familiare, anche il bene comune” (Compendio, n. 177).
Quindi una visione politica che annulli la proprietà privata, tipica di certi regimi comunisti, è scorretta, come quella che afferma dogmaticamente il principio della proprietà privata come un principio assoluto; affermazione tipica del neoliberismo oggi imperante. Quello che invece sarebbe utile è uno Stato forte, dotato di autorità monetaria (come in genere lo sono tutti gli Stati moderni, almeno fino all’introduzione dell’euro), che sia rispettoso della proprietà privata come di ogni diritto individuale, ma che abbia il potere (pure morale) di imporre le opportune limitazioni a tali diritti e alla proprietà privata, in funzione del bene comune.
Ma prima di valutare quali sono i confini di questo delicato equilibrio tra proprietà privata e bene comune, occorre che lo Stato riabbia la sua autorità monetaria. Occorre che lo Stato torni a stampare la sua moneta. Altrimenti, la possibilità dello Stato di perseguire il bene comune sarà destinata a rimanere sulla carta e a soccombere di fronte al potere dispotico della finanza.
E la memoria cosa c’entra? La memoria c’entra, perché l’illusione di una crescita perenne senza grossi problemi si è potuta diffondere proprio per una smemoratezza, caratteristica tipica del modernismo e del relativismo, che ha impedito di ricordare le lezioni del passato, la memoria di ciò che è accaduto: sia nel 1929, sia nelle crisi successive (anni Settanta, poi 1987, poi 1998 con la crisi del fondo LTCM, poi la crisi del 2000). E la stessa smemoratezza ha portato le tre principali banche centrali del mondo (l’americana Fed, la Bce e la Bank of Japan) a inondare il mondo di nuova moneta gonfiando a dismisura i valori di borsa e senza curarsi degli effetti catastrofici per l’economia reale.
E così un evento eccezionale si è verificato il 31 maggio sulla Borsa di New York: un indicatore finanziario, conosciuto come Hindenburg Omen, in ricordo (anche qui c’entra la memoria!) di un famoso disastro aeronautico, che nel 1937 coinvolse un celeberrimo dirigibile, ritenuto sicurissimo, che esplose in fase di atterraggio a causa di una scintilla. Con una coincidenza del tutto eccezionale, l’evento fu ripreso e ancora oggi è reperibile il video di quell’incidente.
Questo indicatore finanziario è del tutto eccezionale, si verifica raramente, ma quando accade esso indica una forte probabilità di crollo dei mercati finanziari. Secondo le analisi più diffuse, ha fallito solo 4 volte su 32, e si è verificato in tutti i 25 crolli di borsa più significativi della storia. Ora si è verificato di nuovo, il 31 maggio. Anche se non è una certezza di un crollo dei mercati finanziari, non è certo un bel presagio. Se mai passeremo indenni l’estate, sospetto che sarà un autunno molto caldo. Molto caldo.
“Quando vedete una nuvola salire a ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” (Lc 12,54). Smettiamo di fare gli ipocriti o di accodarci al pensiero dominante degli ipocriti e, sostenuti dalla memoria di ciò che è accaduto, impariamo a leggere i segni dei tempi.