“Un’altra Prinz fatta fuori”, recitava lo slogan di un vecchio carosello, alludendo a una birra di cui oggi non si parla più. Devono averlo rispolverato, questo slogan, dalle parti di piazzetta Cuccia. Una dopo l’altra, le birre della cambusa costruita da Enrico Cuccia sono state fatte fuori. Quando nel 2010 a Mediobanca assurse il “nuovo ordine” dei “giovani vecchi” – il presidente Renato Pagliaro e l’amministratore delegato Alberto Nagel – (così li aveva definiti il loro ex presidente Cesare Geronzi, promosso al vertice delle Generali e da lì defenestrato), tutto sembrò dover cambiare. Tutto, tranne cinque birre, cinque partecipazioni “strategiche” da presidiare, far crescere, presidiare: le Assicurazioni Generali, Telecom Italia, Rcs, Italcementi, Fonsai. Si disse che quelle sarebbero rimaste “stelle fisse” nel nuovo firmamento.
Ebbene: sei anni dopo la Rcs, semi-fallita per cattiva gestione, è stata rilevata da un editore bravo e dinamico, Urbano Cairo, ma esterno all’orticello degli amici di Mediobanca con un’Opa memorabile, osteggiata da Nagel e i suoi e ben orchestrata da Banca Intesa. Telecom Italia, anch’essa oppressa dai debiti, è stata rilevata senza colpo ferire da un colosso francese, Vivendi, guarda caso controllato dallo stesso Vincent Bollorè che è il primo azionista individuale di Mediobanca. L’Italcementi, che andava benone, è stata venduta a un colosso tedesco. La Fonsai stava per fare default ed è stata affidata, con una rocambolesca operazione finanziaria, alle braccia robuste ma distanti di Unipol.
Restano le Generali, o bisognerebbe dire restavano, perché l’incauta custodia del suo azionariato – Mediobanca col 13% e tre partner finanziari italiani opportunisti, cioè Caltagirone, Del Vecchio e De Agostini – le ha spinte a loro volta tra le braccia di chi se le vuol pigliare, ancora i francesi di Axa che nel frattempo hanno piazzato alcuni loro uomini-chiave al vertice, o al contrario Banca Intesa, ancora lei come per Rcs, si vedrà stavolta con quale risultato.
Diciamolo chiaro, perché una questione dirimente: è un interesse nazionale oppure non lo è che le strategie delle Generali siano dettate da manager italiani designati da soci italiani? C’è chi dice che non lo sia. L’evidenza dimostra che lo è. Nel portafoglio degli investimenti Generali, 500 miliardi di euro, quasi un terzo del Pil del nostro Paese, rientrano oltre 70 miliardi di titoli di Stato nazionali. Resterebbero tanti, se davvero a Trieste assurgesse una governance francese? O i gestori della compagnia opterebbero per dei forse oggi più confortevoli titoli di Stato parigini?
A torto o a ragione le Generali hanno spesso fatto investimenti “di sistema”: ad esempio in Alitalia (peggio per loro), ma anche in Italo (buon per loro), un’azienda che ha introdotto un po’ di concorrenza nel monopolio granitico delle Ferrovie dello Stato. Gli utili generati dalla compagnia del Leone finiscono comunque maggioritariamente nelle tasche di un azionariato internazionale, ma in parte anche in mani italiane; se prevalessero i francesi, no: andrebbero a essi, che li reinvestirebbero altrove.
Insomma: ci manca solo che anche le Generali cambino bandiera e lo status di colonia economia di Parigi, di fatto assunto da vari settori della nostra grande impresa, pervaderebbe anche il sistema bancario e finanziario, dove il gruppo Bnl, il gruppo Cariparma e da poco il colosso del risparmio gestito Pioneer (200 miliardi di asset) già parlano la lingua di Hollande. Oltre a essere divenuto francese il vertice di Unicredit, che ha ceduto appunto Pioneer ad altri francesi, e lo stesso top-management delle Generali, pur ancora per un po’ a guida proprietaria italiana.
Poco rileva ormai ripetere per l’ennesima volta ciò che tutto il mercato ben sa, e che cioè una così incauta custodia dei propri asset da parte di Mediobanca e dei suoi consoci fedeli ha una tale evidenza che solo forze di natura extraeconomica giustificano il permanere dello status quo. Quel che rileva oggi è capire se la contromossa di Intesa Sanpaolo – ormai unica grande azienda finanziaria italiana ancora guidata da un azionariato e da un management nazionali – abbia spazio per vincere o no. Molto dipenderà dalla reazione del sistema Paese. E dalla linea del governo: che per ora tace.
C’è da rimpiangere i tempi in cui ogni tanto dal Palazzo si batteva un colpo ricordando ai pretendenti stranieri quella sorta di “ius soli” che tende a tutelare il radicamento nazionale delle aziende strategiche italiane. O a pretendere, come minimo, quelle “pari opportunità” d’investimenti cross-border che finora in Francia le aziende italiane, da Gardini a Berlusconi all’Enel e perfino a De Benedetti, non hanno mai trovato.
Ma attenzione, la partita Generali è al primo tempo. E Intesa Sanpaolo ha buone carte, spalle grosse e intenzioni serie.