Un brivido lungo la schiena è corso a chi, ancora, ha impressa nella memoria l’immagine dei manager con gli scatoloni; il 15 settembre del 2008 falliva Lehman Brothers. Si era distintamente tratteggiato lo spartiacque tra due epoche. Ieri sera, un evento sinistro ha riesumato il fantasma di quei giorni. Jamie Dimon, Ceo di JP Morgan, prima banca statunitense, ha convocato una conferenza stampa in cui è come se avesse confessato al mondo, e soprattutto ai suoi azionisti: “Scusate. Ci siamo fumati due miliardi di dollari. Forse 2.3”. Il tutto in sole due settimane. Manco a farlo apposta, all’origine del pasticcio ci sono alcune operazioni di copertura finanziaria, attraverso l’utilizzo di strumenti derivati, rivelatesi fallimentari. Ma non è tutto. A breve, sono previste nuove perdite che il Ceo giura che tamponerà. Ci proverà, almeno. Quindi? E’ il preludio di una nuova catastrofe? Secondo James Charles Livermore, operatore finanziario attivo nel settore dell’investment banking, esperto di trading e finanza strutturata raggiunto da ilSussidiario.net, no. «Per la taglia del bilancio di JP Morgan, 2 miliardi sono sostenibili. Il problema è che, in questi tempi di volatilità, i mercati potrebbero reagire con irrazionalità alla notizia. A quel punto si potrebbe scatenare un effetto a catena. Che, tuttavia, difficilmente avrà le proporzioni dell’effetto Lehman Brothers».
Di sicuro, JP Morgan potrebbe non uscirne indenne. «Non è escluso l’innescarsi di un processo di vendite a raffica sul suo titolo. D’altro canto, le agenzie di rating potrebbero decidere di accanirsi sull’istituto, denunciandone l’incapacità di gestione delle posizioni derivate. Si determinerebbe, quindi, una perdita della loro credibilità creditizia, molti contratti standard andrebbero rinegoziati, mentre per altri scatterebbero alcune clausole di garanzia». Se tale scenario (che, sia ben chiaro, risulterebbe dalla peggiore delle ipotesi) dovesse effettivamente verificarsi, ecco cosa, in ultima analisi, accadrebbe: «In questo caso, l’istituto si troverebbe a dover bussare dalla porte della Fed. Ma, in sostanza, non sarebbe lasciato fallire». Resta da capire se le perdite siano state provocate dalle pervicacia nell’abuso di strumenti che, già a suo tempo, provocarono danni irreparabili. «Gli errori legati all’utilizzo dei derivati provengono dal fatto che il quadro normativo finanziario è lo stesso del periodo precedente alla crisi. Nulla è cambiato». Spesso le banche, del resto, non hanno alternative: «Trovandosi nella necessità di generare profitto, seppur in un ambiente depresso e connotato dalla crisi, devono affidarsi a questo tipo di esposizioni; tanto più che a maggiori rischi corrispondono maggiori remunerazioni». Va da sé che la disciplina in materia è stantia, e il mercato andrebbe regolamentato in maniera diversa. «Occorre capire in che termini. Il derivato, di per sé, ha natura assicurativa. Tant’è vero che la sottoscrizione comporta il pagamento di un premio. La regolamentazione, quindi, dovrebbe intervenire laddove chi non ha competenze o struttura patrimoniale adeguata si improvvisi “assicuratore”».
Non è semplice. «Allo stato attuale, finché determinati eventi non si manifestano, la banca non ha necessità di iscrivere a bilancio il derivato. Per il regolatore, quindi, è molto difficile individuare i rischi che si possano effettivamente manifestare». Tornando a JP Morgan. Non tutto è perduto, e il modo per rimettersi in carreggiata c’è. «Per prima cosa – spiega Livermore – dovrà comunicare ai mercati cos’è successo esattamente e perché. Successivamente, dovrà mostrare al proprio regolatore bancario quali eventuali analoghi rischi si possano nascondere tra le pieghe del bilancio e dimostrare alla Banca centrale di potervi fare fronte. Laddove non fosse in grado di farlo, dovrà, a quel punto, reperire capitali freschi. Affacciandosi sul mercato senza creare panico, con un’opportuna strategia comunicativa».
(P.N.)