Provare ad ascoltare la voce del Movimento 5 Stelle e raccoglierne la sfida è un esercizio cui non ci si può sottrarre. È probabilmente inutile per capire loro ma può servire a capire noi, il nostro modo di pensare, i nostri disagi nascosti, la nostra razionalità in crisi, la domanda di cambiamento che ci viene sollecitata.
Se è vero che dentro il discorso di Grillo si può trovare tutto e anche il suo contrario, è pur vero che vi è una sorta di filo rosso fatto di una pesante accusa al sistema, di temi toccati e poi lasciati da parte, di odii e di speranze, di aperture al futuro e di oscurantismo che fanno parte del mondo dell’irrazionale che non è senza attrattiva in questo momento di crisi globale.
L’esempio di questo insieme di sollecitazioni è il modo in cui si affronta il tema della democrazia. Essa, secondo Grillo, non si basa sui numeri, altrimenti il numero altissimo di consensi a Napolitano avrebbe dovuto mettere a tacere ogni protesta. Essa non si basa sui voti: l’accusa a Bersani di aver cercato voti e non idee è un coltello nella piaga dei democratici e del loro leader, un’accusa che suona verosimile se anche Renzi non ha fatto altro che dare del presuntuoso al suo capo.
Ma allora, su che cosa si basa? La domanda ritorna a noi, che davanti alla parola iperdemocrazia potremmo limitarci a voltare pagina ma potremmo anche riaprire la questione. La democrazia, come è ben noto, si basa sul consenso a persone e programmi e prende forma dentro le istituzioni; si basa sul principio della rappresentanza, secondo cui coloro che entrano nelle istituzioni su mandato degli elettori sono l’immagine, anche se sfuocata, di chi li ha inviati e dovrebbero mantenere un legame il meno astratto possibile con costoro, almeno come impeto ideale, come desiderio di conservare almeno una radice che fermi la salita verso un uso del potere fine a se stesso, senza anima e senza responsabilità. Perché, in effetti, democrazia è responsabilità politica ed amministrativa (oltre che civile e penale); al mondo della responsabilità si aggiunga anche il termine accountability, parola un po’ lontana dalla nostra cultura che significa, grosso modo, rendere il conto, avere un interlocutore a cui narrare quanto si fa, quanto si è concretamente realizzato con la propria azione, a cui rendere il mandato ricevuto e chiedere, se del caso, di rinnovarlo.
Se tutto questo è vero in teoria, pare che oggi essa abbia poca attinenza con la realtà: appare a colpo d’occhio, tanto che non è neppure il caso di dettagliare ulteriormente l’analisi. Se ci pensiamo bene, parole come consenso, rappresentanza, responsabilità, che fanno parte del vocabolario più sensibile della democrazia, non hanno un suono molto diverso dalla parola iperdemocrazia. È, alla fine, come dice Grillo, solo una questione di sintassi.
E, allora, è inutile cercare di controbattere colpo su colpo, controbbattere con teorie che si stanno progressivamente svuotando di sostanza a idee con scarsa ragione ma evocative di una domanda di nuovo a cui non si sa rispondere. L’antipolitica getta la sua ombra anche su di noi, sulla stanchezza e lo scetticismo con cui guardiamo le cose accadere, rassegnati a non aver nulla da proporre e da sostenere, nessuna idea per cui sacrificarci. Non bisogna lasciar cadere la sfida. Ne va della nostra ragione e della nostra azione, cioè di una intera civiltà.