Con la creazione dell’Autorità per l’acqua i referendum perdono senso? In un certo senso, sì; in un altro, non ce l’hanno mai avuto. Nella pratica, è corretta l’analisi del sottosgeretario allo Sviluppo economico, Stefano Saglia, secondo cui “il referendum non sarà superato legalmente, ma lo sarà nei fatti”.
Uno dei principali limiti dell’impostazione disegnata dal decreto Ronchi, infatti, stava proprio nell’assenza di un regolatore incaricato di determinare le tariffe. Queste venivano lasciate alla sostanziale discrezionalità dei sindaci (rappresentati nelle Autorità d’ambito territoriale ottimale), che potevano essere tentati di assegnare alle ragioni della politica – tenere i prezzi i più bassi possibili – un peso specifico maggiore rispetto a quelle dei numeri.
Naturalmente, per esprimere una valutazione occorrerà attendere e vedere come l’Autorità verrà strutturata: quali poteri avrà sulla carta e se avrà le risorse (umane e finanziarie) per svolgere correttamente il proprio lavoro. In ogni caso, il potenziamento del Conviri – o, con lo stesso risultato e forse qualche garanzia in più, l’assegnazione delle competenze sull’acqua all’Autorità per l’energia – contribuisce a dare maggiore coerenza e robustezza al quadro regolatorio. E a far venir meno alcune delle preoccupazioni che hanno mosso i sottoscritori dei quesiti referendari in programma per i prossimi 12-13 giugno.
Sullo sfondo, però, permane un grande equivoco: checché ne pensino tutti quelli che in buona fede hanno firmato, in Italia l’acqua non è mai stata privatizzata. Non lo è stata in quanto sia la risorsa idrica, sia le infrastrutture – tubi, pompe, potabilizzatori, depuratori, fogne, ecc. – sono e resteranno pubbliche. Ai privati viene offerta la possibilità di entrare nella gestione del settore, e fare gli investimenti necessari, traendone una “congrua remunerazione”.
Ciò accade sulla base dell’aspettativa che essi abbiano maggiori competenze tecniche e disponibilità finanziarie rispetto alle loro controparti pubbliche, che sono generalmente sottodimensionate e sempre troppo influenzate dai politici che ne nominano gli amministratori e ne decidono, in ultima analisi, le condizioni di equilibrio finanziario. Questo limite, peraltro, verrebbe ingigantito se passasse il secondo quesito referendario, quello che – sottraendo la remunerazione del capitale investito dalle voci ribaltate in tariffa – sposterebbe di fatto gli oneri finanziari sulle spalle dei Comuni.
Quella della privatizzazione è una bufala talmente grande che perfino l’Ocse, nel suo “Economic Survey of Italy 2011”, si sente in dovere di chiedere la “full privatization” di un settore che, evidentemente, è la cenerentola degli investimenti. La scelta se affidarsi, totalmente o parzialmente, risponde dunque a una serie di valutazioni che sono più tecniche e finanziarie che politiche. Perché, allora, il semplice sospetto che l’acqua possa essere privatizzata desta tante preoccupazioni?
È difficile rispondere, perché non c’è alcuna evidenza delle catastrofi che vengono preconizzate. Anzi: come dimostra Fredrik Segerfeldt nel suo libro “Acqua in vendita? Come non sprecare le risorse idriche”, l’esperienza internazionale è molto incoraggiante. Lo è, soprattutto, nei paesi in via di sviluppo, dove l’ingresso di soggetti privati ha consentito di cambiare volto al settore idrico, estendendo le tubature e migliorando l’accessibilità e la qualità dell’acqua, a vantaggio soprattutto delle periferie povere, e imponendo un (modesto) sacrificio, sottoforma di aumenti tariffari, ai ceti urbani medio-alti che già potevano contare sul lusso di un rubinetto in casa.
Dietro l’ostilità alla “privatizzazione”, allora, c’è soprattutto il pregiudizio. E dietro il pregiudizio ci sono soprattutto vizi ideologici, o interessi politici. Può esserci, da parte di qualcuno, la sincera convinzione che davvero i privati siano intrinsecamente speculatori e il pubblico sia per sua natura efficiente e bene intenzionato. A proposito, anche la Terra non è piatta.