Ohibò, una banca italiana sta già scaricando debito pubblico del nostro Paese. Proprio così, è del 2 ottobre la notizia che Pioneer Investments, facente parte del gruppo UniCredit, ha venduto titoli di Stato italiani il mese scorso sulla scommessa che la Bce non comincerà ad acquistare bond sovrani per far ripartire la ripresa. Non è un’indiscrezione da confermare, lo ha detto chiaro e tondo Tanguy Le Saout, responsabile del reddito fisso europeo di Pioneer: «Siamo corti sulla periferia adesso, soprattutto sull’Italia. Abbiamo cominciato a uscire dai titoli di Stato italiani un po’ prima della precedente conferenza stampa della Bce e proprio adesso durante quella di oggi», ha spiegato riferendosi all’ultimo uscita del Consiglio direttivo di giovedì scorso a Napoli. E ancora: «Non sono più a buon prezzo come un tempo e la situazione politica sta tornando a essere quella che era solita essere. Penso che scommettere sull’assenza di un Qe significhi che stiamo scommettendo sul fatto che i periferici si allargheranno, perché parte del rally è stato garantito dall’aspettativa di un Qe. Quindi siamo felici di essere corti sull’Italia».
Viva la sincerità, per una volta. Eppure il buon Le Saout potrebbe aver sbagliato i propri calcoli, visto che il vaso di Pandora è stato definitivamente scoperchiato. Al di là della previsione per il nostro Paese di «un futuro non roseo» (aspettavamo loro per saperlo) e della revisione al ribasso del Pil globale, non una novità visto che non azzeccano una previsione dal 2009, ciò che conta veramente del report del Fmi diffuso martedì è questo: «Se le prospettive di inflazione non migliorano e le aspettative sull’inflazione non dovessero aumentare, la Bce dovrebbe fare di più, incluso l’acquisto di attività sovrane. Per la zona dell’euro la priorità è raggiungere una crescita al di sopra della tendenza e aumentare l’inflazione e ciò implica il mantenimento di una politica economica accomodante». Insomma, la Bce deve dar vita al suo Quantitative easing, firmato Christine Lagarde.
Ma perché tanto timore proprio ora, accompagnato da una dichiarazione che sembra fatta per evitare scossoni sugli spread, nonostante l’inflazione nell’eurozona sia bassa da mesi e mesi? Per ciò che vi dicevo ieri: con il passare del tempo, sta sempre più avvicinandosi la grande rotazione dall’obbligazionario verso l’azionario Ue, un qualcosa che si sostanzierebbe in una sell-off sovrana in grado di innescare non tanto una crisi finanziaria, quanto bancaria. Ma cosa rende così possibile e così da temere una simile ipotesi? La fragilità delle sottostanti economie reali dei Paesi della periferia dell’eurozona? Il riposizionamento dei grandi fondi per l’ultimo trimestre, con allocazioni di portafogli pronte a spostarsi sulle equities?
No, la questione più importante al riguardo, il vero motivo di timore per una crisi obbligazionaria sovrana più severa sia di quella del 2008 che del 2011 è racchiuso in una singola parola: collaterale. Ora, cosa sia il collaterale penso lo sappiate tutti ma meglio non lasciare nessun dubbio, vista la delicatezza e l’importanza – a mio avviso – dell’argomento. Dunque, il collaterale è l’asset – il bene – sottostante che si posta a garanzia quando si entra in un’operazione, un accordo finanziario: è sostanzialmente una promessa in base alla quale, se le cose dovessero andare storte, ci impegniamo ad avere un bene a disposizione che la controparte può ottenere da noi per compensare le perdite in cui è incorsa nella transazione.
Ad esempio, se chiediamo un mutuo immobiliare in banca, l’istituto ci chiede qualcosa a garanzia di quei soldi in caso dovessimo non essere in grado di ripagarlo. Nel caso della proprietà, è proprio la casa il collaterale che garantisce il nostro accordo con la banca, visto che se non paghiamo le rate del mutuo può pignoraci la casa, metterla all’asta e così rifarsi (almeno in linea teorica) delle perdite in cui è incorsa per la nostra non solvibilità. Insomma, avete capito che di fatto il collaterale è una sorta di assicurazione per ogni transazione finanziaria al fine di mitigare i rischi per le controparti in caso le cose non vadano a buon fine.
Bene, come sapete l’intero sistema finanziario globale si basa su denaro preso in prestito e utilizzo della leva, quindi il collaterale è un concetto fondamentale per il suo funzionamento, poiché garantisce il vincolo di fiducia tra le controparti che altrimenti non si accorderebbero per timori di perdite: senza fiducia, quindi senza collaterale, non ci sarebbero prestiti e senza questi ultimi non si potrebbe accedere al sistema finanziario. Per mettere le cose in prospettiva, il collaterale rappresenta la “realtà” sottostante la componente di leva che è invece “l’immaginazione”, il preso a prestito che non c’è.
A livello privato, di consumatore, quando prendiamo a prestito denaro per finanziare un’operazione, il nostro conto corrente, la casa o altri assets reali sono i nostri collaterali di garanzia, mentre a livello corporate, le aziende postano differenti tipi di assets per i loro prestiti: ad esempio, un’azienda manifatturiera può “impegnare” i propri magazzini di scorte, mentre per le aziende del ramo immobiliare il collaterale tipo è rappresentato da una parte del proprio portafoglio real estate. Diverso invece è il ragionamento per le istituzioni finanziarie, la parte più alta della catena economica del ramo corporate, il cui collaterale tipo sono proprio le obbligazioni sovrane.
Il perché è presto detto: stando alle moderne teorie finanziarie, infatti, i bond sovrani sono le obbligazioni più esenti da rischio – cosiddetti risk-free – nel sistema finanziario, anche più di equity, bond municipali e bond corporate. Perché? Perché è comune sentire il fatto che sia più facile che vada a zampe all’aria un’azienda, con le sue obbligazioni, che uno Stato: detto fatto, per il sistema finanziario occidentale Treasuries, Bund e bond giapponesi sono l’asset senior sovrano da postare come collaterale per garantire accordi e transazioni per triliardi di dollari.
Ora, sapete a quanto ammonta il mercato globale del derivati? Circa 700 triliardi di dollari, più di dieci volte il Pil del mondo: e sapete cosa c’è principalmente a garanzia di quelle transazioni su derivati? Bond sovrani, anche di Spagna, Italia, Grecia, Portogallo e Irlanda. E qui dobbiamo prendere in prestito l’automobile di Doc Brown come in “Ritorno al futuro” e andare indietro nel tempo, esattamente al 2004. Quell’anno, infatti, le principali banche d’affari Usa come Goldman Sachs, JP Morgan, eccetera diedero vita a un’operazione di lobbying e pressione senza precedenti sulla Sec, l’autorità di vigilanza del mercato Usa, affinché fosse loro consentito di aumentare il loro livello di esposizione alla leva: in parole povere, quelle istituzioni volevano utilizzare lo stesso collaterale come backstop per trading molto più ampi, aumentando la discrepanza tra esposizione e grado di copertura reale in caso di perdite.
Ovvero, se prima una banca aveva un dollaro di collaterale a garanzia di 10 dollari di trading, con la nuova regolamentazione la stessa istituzione finanziaria poteva mantenere il suo dollaro di collaterale ma a copertura dei rischi su trading per 20,30 o anche 50 dollari. Ma non basta, le grandi banche volevano anche altro, ovvero il fatto di poter abbandonare la valutazione mark-to-market, cioè ai prezzi di mercato correnti, delle loro securities: insomma, non si doveva più valutare quanto si aveva in base al prezzo che il mercato avrebbe pagato per ottenerlo ma con criteri propri, interni, mascherati nei bilanci o sotto voci un po’ alla Fausto Tonna ai tempi di Parmalat. E questo valeva per tutto quanto stava nei bilanci della banche in questione, compresi i devastanti portafoglio di derivati con ammontare di triliardi di dollari.
A vostro modo di vedere cosa fece la Sec? Esatto, accontentò le banche e questo fu il nuovo ambiente operativo in cui i giganti di Wall Street partirono all’assalto dei mercati dal 2004 in poi, arrivando ad ammassare – e parliamo solo delle istituzioni finanziarie statunitensi – trade su derivati per un controvalore di oltre 200 triliardi di dollari. Ma attenzione, quello era il valore al mark-to-market: le banche potevano valutare quei trades come volevano, con il controvalore che faceva loro più comodo per occultare a mercato e regolatori la vera esposizione alla leva. Partendo da questo presupposto, la realtà è che ogni broker operativo di una grande banca d’affari sa benissimo che il suo collega di un’altra banca sta sovrastimando il valore delle sue securities, esattamente come sta facendo lui: quindi, per continuare a far girare la giostra serve collaterale a garanzia di quelle bugie dalle gambe molto corte – almeno dal 2008 in poi – e anche il mercato dei derivati necessita di quel collaterale a garanzia del trading e delle eventuali perdite in cui questo può far incorrere. Insomma, come garanzia ultima di un mercato di oltre 700 triliardi di dollari, quello dei derivati, abbiamo come backstop principalmente bond sovrani.
Qual è il problema? C’è maggiore rischio di default sovrani, quindi cancellazione del concetto di risk-free per quelle obbligazioni? No, il problema è che attraverso i loro programmi di Qe, la Fed, la Bank of Japan e la Bank of England hanno drenato dal sistema finanziario tutto il collaterale di alta qualità comprando con il badile Treasuries, bond giapponesi, Gilts britannici, Bund, Oat francesi e quant’altro: stiamo parlando di acquisti per 10 triliardi di dollari di collaterale di prima qualità che ora riposa nei bilanci della banche centrali e non nuota più libero nel sistema a garanzia delle transazioni. Non a caso, la liquidità minima che si sta registrando sul mercato dei bond corporate è la riprova di questo: tutti sul mercato sovrano, tutti alla ricerca di rendimento. La stessa cosa però ora si applica anche ai bond sovrani, visto che molti manager si stanno lanciando su derivati sul reddito fisso poiché non riescono a comprare titoli di Stato “reali”: guarda caso, quest’anno si è tenuta la prima edizione dell’International Conference on Sovereign Bonds Market e il primo argomento all’ordine del giorno era proprio la liquidità.
Insomma, se la crisi del 2008 era principalmente legata all’investment banking, quella che sta bollendo in pentola sarà dell’obbligazionario sovrano a livello globale ma con epicentro nell’eurozona. E visto che già oggi la liquidità sul mercato dei bond rappresenta un problema nonostante il mercato stesso sia in rally, provate a pensare cosa potrebbe accadere se dovesse prendere forza una rotazione in uscita: una panic-selling senza precedenti. Ecco perché Christine Lagarde ha autorizzato quel report con quella richiesta così esplicita alla Bce: la catena del collaterale sta per andare di nuovo in tilt e quei bond a garanzia dei trades, sempre meno di high-grade come i nostri o quelli spagnoli, portoghesi e irlandesi potrebbero tramutarsi in breve tempo nel canarino che finisce morto in miniera per vedere se c’è gas.
Un altro frutto marcio del Qe globale e dell’avidità finanziaria sta per presentare il conto. E questa volta potrebbe essere ancora più salato che nel 2008, come le mosse anticipate di Pioneer Investments ci fanno capire plasticamente.