Le delibere della Corte Costituzionale riassunte in un comunicato del 25 gennaio (ma di cui non si conosce ancora il dispositivo nel suo testo integrale) hanno riacceso il dibattito sui tempi e sui modi delle nuove elezioni: se attendere la scadenza dell’attuale legislatura (primavera-estate 2018) o anticiparle di un anno. I commentatori di politica si sono scatenati nell’analizzare gli obiettivi, le motivazioni, le prospettive delle singole forze politiche. I sondaggisti e gli statistici hanno, invece, elaborato scenari quantitativi di chi e di quale coalizione, a legislazione quale deducibile dal deliberato della Corte (con pochi aggiustamenti alla legge elettorale del Senato), potrebbe uscire vincitore o perdente da una tornata elettorale anticipata. Per ora, gli esiti delle simulazioni deludono tutti: il sistema politico è così frammentato che tutti uscirebbero sconfitti da elezioni politiche in inizio o tarda estate 2017.
Gli economisti hanno, sinora, tenuta la bocca chiusa. La professione non è particolarmente abile a tracciare scenari: basti pensare che gran parte della teoria sull’analisi di investimenti in condizioni di incertezza si basa, in parte, su riflessioni e applicazioni effettuate, in precedenza, nelle “segrete stanze” degli uffici studi del Pentagono (dove le “condizioni d’incertezza” sono in gran misura la norma). Gli economisti, però, hanno una teoria solida da cui si possono dedurre alcune conclusioni pertinenti alla domanda che ci siamo posti.
Consideriamo, in primo luogo, il contesto internazionale: ci sono segni di ripresa, ma anche di un riassetto geopolitico (un rapporto più stretto tra Stati Uniti e Gran Bretagna – dopo la decisione relativa alla Brexit- e tra Stati Uniti e Federazione Russa) e una ripresa del protezionismo. Questi due elementi potrebbero rallentare la ripresa di un’Unione europea che al suo interno appare sempre più divisa, anche su temi fondanti (come l’unione monetaria) e “ospita” nel seno dei suoi maggiori Paesi forti movimenti antieuropeisti. Le previsioni per il 2017 mostrano l’Italia come il fanalino di coda dell’unione monetaria, con un tasso di crescita inferiore a quello della Grecia. E, per di più, è a rischio di procedura d’infrazione da parte dell’Ue.
Il consenso di numerosi economisti (tanto italiani quanto stranieri) è che, unitamente all’elevato debito pubblico – sia in valore assoluto sia in rapporto al Pil – e alla produttività ferma ai livelli di quindici anni fa, l’Italia è rallentata dalla “distrazione di massa” dalle riforme economiche strutturali (concorrenza, 8.000 aziende a partecipazione pubblica, mercato del lavoro, una politica di innovazione che dedica risorse più ai perdenti che ai potenziali vincitori, un sistema bancario simile a un colabrodo) per dedicare invece attenzione a riforme istituzionali mal concepite e sonoramente bocciate al referendum dai cittadini.
Le forze politiche che più premono per elezioni anticipate dovrebbero ammettere che si tratterebbe di un’altra “distrazione di massa” che distoglierebbe la politica e i cittadini dalle effettive riforme economiche realmente urgenti per porre l’attenzione su una nuova, combattutissima, campagna elettorale. È normale che in questa situazione economica e occupazionale i movimenti di opposizione anelino a elezioni nella convinzione che l’elettorato dia loro consensi. È difficile comprendere la posizione del leader del Pd alla ricerca di una rivincita. Dopo la battaglia di Austerlitz, quando tutte le teste coronate d’Europa si inchinarono a Napoleone, Talleyrand sussurrò all’orecchio dell’Imperatore: “Maestà, la prima battaglia che perdi tutti saranno contro di te”. Perché cerca Waterloo, e Sant’Elena, tanto presto?