Sono circa 7 milioni le famiglie che in oltre 1.200 Comuni italiani hanno pagato l’Iva sulla Tia, la tariffa di igiene ambientale, per un totale che secondo uno studio della Uil Servizio politiche territoriali si aggira intorno a 1,3 miliardi di euro. E’ questa la cifra che lo Stato rischia ora di dover restituire a tutti coloro che hanno ingiustamente pagato l’Iva su una tariffa che, come hanno stabilito due sentenze della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale, altro non è che un doppione della cosiddetta Tarsu, la Tassa Smaltimento Rifiuti Solidi Urbani. Andiamo con ordine: dal 1999 molti Comuni hanno messo da parte la Tarsu in favore della Tia sulla quale, essendo stata fatta passare per tariffa, è stato possibile applicare l’Iva. Il problema è che con la sentenza n. 238 del 24 luglio 2009, la Corte Costituzionale ha stabilito che la Tia non è una tariffa, ma una tassa a tutti gli effetti, sulla quale quindi non è possibile applicare l’Iva. Nonostante questo, per diversi anni circa 7 milioni di famiglie hanno pagato il 10% in più del dovuto. Ecco quindi che adesso lo Stato potrebbe dover sborsare 1,3 miliardi di euro, cifra ovviamente non irrilevante in un periodo così delicato per le finanze pubbliche, anche se dal prossimo anno la situazione dovrebbe tornare alla normalità. Il governo Monti ha infatti previsto l’introduzione, dal primo gennaio 2013, della cosiddetta Tares, la nuova tassa che in un solo colpo manderà in pensione la Tarsu e la Tia e sulla quale l’Iva non dovrà essere applicata.
Secondo Gilberto Muraro, professore di Scienza delle Finanze presso l’Università di Padova, interpellato da IlSussidiario.net, si è trattato di «un vero e proprio pasticcio, in cui regole di forma si mescolano impropriamente a quelle di sostanza. La Tarsu ha sempre avuto una natura tributaria, ma a un certo punto è stato deciso di togliere il servizio di raccolta rifiuti urbani dai servizi comunali in senso stretto, quindi finanziati da tributi, e trasformarlo in un servizio a parte, da far pagare ai residenti attraverso una tariffa». Questo, ci spiega il professor Muraro, «principalmente con lo scopo di far sentire ai residenti il “peso” dei rifiuti che producono e che impongono un costo alla collettività. Questo portava anche sul piano applicativo a dover concepire una tariffa che fosse approssimata alla quantità dei rifiuti: alcuni Comuni sono andati avanti rigorosamente su questa strada, utilizzando la misurazione dello scarico di rifiuti da parte delle famiglie attraverso contenitori apribili solamente con una particolare carta magnetica, capace di annotare numerosi dati che permettono di approssimare in maniera accettabile lo scarico individuale. In altri Comuni, invece, la tassa precedente è stata semplicemente chiamata Tia, legata al numero dei componenti della famiglia o ai metri quadrati dell’abitazione».
Questa tariffa è stata però dichiarata illegittima perché, a differenze degli altri Comuni, «non c’è una sufficiente approssimazione al carico individuale che giustificherebbe il nome di tariffa. La Corte Costituzionale ha quindi stabilito che ci si trovava di fronte a un vero e proprio tributo, su cui ovviamente non poteva essere applicata l’Iva». Ora che il quadro è chiaro, come potrebbe risolversi la situazione? «Soprattutto in tempi difficili come questi – conclude Muraro – bisognerebbe pensare un modo per evitare di far pagare allo Stato una simile cifra. Si potrebbe anche immaginare una soluzione alternativa per permettere una restituzione in maniera indiretta, per esempio sottoforma di eventuali sconti futuri. Resta il fatto che mettere in piedi un meccanismo di calcolo di quanto lo Stato debba versare e di restituzione fisica del dovuto, dal punto di vista economico, è un’operazione insensata».
(Claudio Perlini)