183 senatori hanno approvato in prima lettura (voto finale, dovuto dopo i voti dei singoli articoli che sono stati espressi nei giorni scorsi) la riforma del Senato e della funzione legislativa regionale, due aspetti della seconda parte della Costituzione strettamente connessi, cui si aggiungono svariate norme di aggiustamento del testo del 1948 – norme più specifiche ma non di dettaglio in quanto sufficientemente importanti da meritare qualche considerazione.
183 su 355 (350 senatori eletti più i 5 senatori a vita): una maggioranza non ampia in assoluto (178 essendo il quorum necessario all’assenso) ma più ampia di quanto siamo abituati ad avere nel nostro in Italia e sufficiente non solo per il primo passaggio ma anche per il secondo, visto che in seconda lettura è necessaria o la maggioranza assoluta o i 2/3 degli aventi diritto al voto, quast’ultimo essendo il quorum necessario a evitare il referendum, che pure pare sia comunque necessario in questo clima di accesa opposizione alla riforma stessa. Non dobbiamo infatti dimenticarci che, per il voto finale, gran parte degli oppositori non si è presentata in aula e che il clima negli ultimi giorni era molto teso, problematico, con accuse gravi sia verso la presidenza della Camera sia, di contro, verso una opposizione fuori dalle righe (per essere misurati nelle espressioni verbali).
A questo stadio (e in questo periodo dell’anno) non vi è molto da dire sul testo in sé. Come molte delle leggi che si fanno in questo momento difficile per il Paese, anche questa camminerà con le gambe degli uomini che vi daranno attuazione. Cruciali, soprattutto, le scelte che verranno fatte dai Consigli Regionali per l’elezione dei loro rappresentanti al Senato: se è importante l’immunità (che resta) e l’indennità (cancellata insieme ad una serie di norme volte a ridurre i costi della politica), ben più importante sarà conoscere chi verrà inviato a Roma dai territori, se saranno persone capaci di dar voce agli interessi locali (e non ai propri interessi elettoralistici) portando al centro la voce delle autonomie e in grado quindi di dare un apporto significativo alla costruzione della legislazione nazionale ma anche all’impatto della stessa a livello regionale, una novità che ad oggi era in teoria affidata al CNEL (ora abolito) ma anche in verità non era mai stata fatta. Il nuovo Senato potrà dunque essere molto utile o assolutamente inutile o posizionarsi in un punto intermedio tra questi due estremi; comunque, non sarà facile metterlo a punto in un clima politico che sembra avere in mente tutto tranne che gli interessi reali del Paese.
L’altro punto qualificante è la abolizione (potenziale ma non per questo meno significativa) della potestà legislativa regionale, non solo quella concorrente ma anche quella esclusiva che potrà essere posta nel nulla se lo Stato riterrà di dover intervenire a tutela dell’unità economica del Paese. Non che in passato le Regioni – tranne quelle notoriamente virtuose – si siano distinte per un esercizio accordo dei poteri che la riforma del Titolo V attuata nel 1999/2001 aveva loro conferito. E, tuttavia, a chi ha da sempre valorizzato le autonomie e l’autonomia, in nome del principio di sussidiarietà, questo cambio di registro fa una certa impressione; si tratta infatti di un cambiamento epocale, che riporta le Regioni nell’ambito di autorità amministrative private del potere di esprimere una visione politica propria, differenziandosi dall’indirizzo politico statale. Esse potranno sì continuare a fare leggi ma sotto la spada di Damocle del potere statale di intervento, capace di porre nel nulla le loro scelte, salvo che la Corte Costituzionale – che sarà composta anche da qualche giudice eletto dal Senato (2 su 15, non un gran che per fare maggioranza) – non si mostri meno guardinga nel dirimere i conflitti che certamente insorgeranno tra Stato e Regioni, modificando la propria tendenza a schierarsi quasi sempre in favore delle Stato. Per non parlare dello svuotamento quasi definitivo dei Consigli Regionali, la cui funzione primaria (quella di fare leggi) viene depotenziata dopo che quella di controllo sull’esecutivo era divenuta pressochè inesistente a motivo dell’elezione diretta del Presidente della Regione introdotta nel 1999.
Quando non sono meri adattamenti alla nuova struttura del Parlamento (es. sarà solo la Camera a dare la fiducia al Governo), la riforma contiene altre norme che introducono aggiustamenti resi necessari dopo 60 anni di vigenza del testo del 1948: al Governo viene conferito il potere di veder approvate la proprie leggi in tempi ragionevoli, viene ridimensionata (almeno in pectore) la decretazione d’urgenza, si introduce il controllo preventivo della Corte Costituzionale sulle leggi elettorali, si riforma (ma poco) il referendum.
Nell’insieme, la riforma non incide solo sulla funzione legislativa (anche se questo è evidentemente il primo target) ma dovrebbe avere un risvolto importante anche rispetto al Governo, rendendolo più efficiente nella realizzazione del proprio indirizzo politico, con leggi approvate da una sola Camera, possibilità di incidere pesantemente sulla legislazione regionale e con poteri di accelerazione nella stessa produzione legislativa nazionale. Nuovi poteri dunque, che peraltro inizieranno ad essere effettivi solo tra svariati mesi.