I blog dei grandi giornali americani sono inondati di proteste: «Salvare le Big Three? Di nuovo? E con i soldi nostri?». Al Congresso Rick Wagoner, Alan Mulally e Bob Nardelli, i boss di GM, Ford e Chrysler, vengono presi a pesci in faccia: «Alzi la mano chi di voi è venuto con un aereo di linea», chiede sfrontato Patrick McHenry, repubblicano del North Carolina. E Mitt Romney che voleva correre per la Casa Bianca al posto di McCain, dice: «Sono nato a Detroit, mio padre è stato al vertice di un gruppo dell’auto, eppure vi dico lasciateli fallire, altrimenti saremo sempre punto e a capo». Ha ragione?
Un commentatore economico liberal come Robert Samuelson è di opinione opposta, ma ha scritto su Newsweek che non si può firmare nessun assegno in bianco. Il mega-prestito (si parla di 25 miliardi di dollari) va subordinato a un serio piano di ristrutturazione. La pensa così anche il presidente eletto Barack Obama. Cosa vuol dire in concreto, nessuno lo sa.
Intanto, il salvataggio americano s’aggira per l’Europa come uno spettro. La crisi GM ricade direttamente sulla Opel, sua consociata tedesca, che ha chiesto aiuto al governo. Angela Merkel ha preso impegno, ma spera che l’Unione Europea (si sta discutendo un progetto di intervento orizzontale) la tragga d’impaccio. Perché, se interviene per l’Opel, la Cancelleria verrà immediatamente assediata da Volkswagen, Mercedes, Bmw, con un effetto a catena in tutti gli altri Paesi. Persino gli inglesi, che un tempo si vantavano di non aver difeso la loro gloriosa industria automobilistica, in omaggio al libero mercato, adesso vogliono lo Stato. In Italia, Sergio Marchionne ha messo in guardia da un si salvi chi può che in realtà è una competizione selvaggia e sleale: «O tutti o nessuno», ha detto.
La crisi dell’auto ha un impatto senza dubbio enorme, appena inferiore a quello delle banche, perché resta l’industria delle industrie, con un vasto indotto e un grande effetto moltiplicatore (posti di lavoro, salari, profitti, dividendi, tasse, pensioni, ecc.). Ma più che di un salvataggio, avrebbe bisogno di un radicale ripensamento.
L’automobile è un settore doppiamente ciclico: oltre al ciclo della domanda, è sottoposta a un ciclo, grosso modo decennale, dell’offerta. Quando le due curve coincidono, allora arriva la catastrofe. Come sta avvenendo oggi.
Per quasi un decennio, i produttori americani sono vissuti su una grande illusione: che il petrolio potesse restare a livelli così bassi (in termini reali, eravamo tornati all’età dell’oro) e che i Paesi asiatici non fossero in grado di diventare una minaccia competitiva. Così, hanno inondato le strade di suv, pick-up, mostri come gli Hummer e simili macchine energivore, inquinanti, costose.
Quando, quattro anni fa, il greggio ha cominciato la sua rimonta, hanno fatto di tutto perché il Congresso e l’Amministrazione tenessero basso il prezzo della benzina. La loro politica miope ha infettato persino l’Europa dove pure il carburante costato il doppio. Finché, a partire dal 2006, tutti hanno cominciato a capire che così non si poteva continuare. Ma, invece di correre ai ripari, hanno creduto di poter procedere a piccoli passi. Il crack finanziario li ha totalmente spiazzati.
Ha ragione Wagoner che per GM (come per le altre concorrenti) il Chapter 11 non è una via percorribile, perché nessuno vorrebbe più comprare un’auto da un’azienda che rischia di non essere in grado di assicurare servizi, assistenza, ricambi. Senza contare l’impatto sui fornitori, la catena di vendita e l’intero indotto. Tuttavia, non siamo più ai tempi della Chrysler e di Reagan. Se la crisi è sistemica, l’assegno tappabuchi non può essere una soluzione.
La partita si fa drammatica, perché sarebbe saggio attendere l’insediamento del nuovo presidente ed esaminare un intervento strutturale. Ma il tempo stringe; anzi, forse è già scaduto.