Aprile è il mese più crudele: l’incipit della Terra desolata di T.S. Eliot è un classico nel wikiquote del giornalista, ma questa volta la citazione è quanto mai appropriata. Aprile è stato davvero crudele per la Fiat. La produzione è caduta del 27%, un tonfo notevole. La spiegazione è semplice: sono finiti gli incentivi statali.
Sergio Marchionne lo sapeva e non si può dire che non avesse avvertito tutti, dal governo ai sindacati. Tuttavia, la casa italiana è andata peggio delle sue concorrenti europee: Volkswagen è scesa del 7%, Ford del 12%, GM Europe del 19% così come Toyota, mentre le francesi, Renault e Psa, sono addirittura cresciute sia pur di poco. Dunque, l’addio agli aiuti ha pesato in modo determinante, ma all’interno di una debolezza che resta ancora strutturale. L’amministratore delegato lo sa e sta accelerando l’operazione americana. Magari in attesa che nel Vecchio continente salti fuori la buona occasione per chiudere il triangolo delle alleanze.
Alla Chrysler le cose procedono meglio del previsto. Venerdì Marchionne inaugurerà una nuova linea di produzione della jeep Grand Cherokee a Jefferson North. Vuol essere il calcio d’inizio in una partita destinata a rivoluzionare l’intera gamma, con un’integrazione produttiva tra Fiat e Chrysler molto più intensa del previsto.
Il piano strategico lo dice, ma per capirlo davvero bisogna andare a Detroit e guardare dentro gli impianti americani. Tra Lancia e Chrysler la fusione è di fatto avvenuta. I due brand verranno usati indifferentemente a seconda dei mercati, tanto che nel Regno Unito e in Irlanda, paesi abbandonati da Lancia, le vetture saranno vendute come Chrysler. Ma il processo andrà avanti in tutta la gamma delle due case.
Le Fiat dalla Serbia saranno importate negli Usa con l’etichetta Chrysler, un nuovo Suv Alfa verrà costruito negli States insieme ai veicolo che rimpiazzerà la Jeep Patriot. Nel 2013 Mirafiori produrrà una berlina Chrysler e l’anno dopo la Dodge uscirà dalle linee di Cassino. Dalle fabbriche americane, invece, già nel 2012 dovrebbe scaturire la 500 elettrica. L’elenco è lungo, la filosofia sempre la stessa: semplificare, ridurre le piattaforme e sfruttarle al massimo per modelli che condividono lo stesso chassis.
La razionalizzazione ha già funzionato: gestione del magazzino e delle scorte, strutture amministrative, prezzi, riorganizzazione del lavoro a cominciare dal management. Il rimbalzo è cominciato in febbraio, spiega Automotive News, e aprile si è chiuso con un 25% in più di vendite, l’aumento maggiore da cinque anni a questa parte.
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Nel primo trimestre il gruppo ha registrato un utile operativo e ha cominciato a restituire al Tesoro una prima tranche dei soldi prestati da Bush nell’autunno 2008. A questo punto, il consiglio di amministrazione è orientato ad anticipare il ritorno in borsa, cercando di battere sul tempo General Motors che sembra avere meno fretta di ricollocare sul mercato le proprie azioni. Per Chrysler, rientrare a Wall Street è più urgente, anche perché coincide logicamente con il break-up Fiat.
Gli eredi Agnelli sono pronti. La settimana scorsa è avvenuto il riassetto dell’accomandita che ha consolidato la guida della proprietà dispersa tra i cento membri della famiglia. Al comando c’è, ormai capo incontrastato, John Elkann che guida anche Exor, la holding dove è custodito il 30 e passa per cento di Fiat e presiede l’intero gruppo industriale. Nella sapaz è entrato Andrea Agnelli insieme a Maria Sole e Luigi Ferrero di Ventimiglia, nipote di Clara Nasi. Mai negli ultimi dieci anni era stata data una tale immagine di stabilità dinastica. Premessa ideale per il cambiamento.
Che dire? Good bye e good luck. Si chiude un secolo nel corso del quale la Fiat è stata l’industria di sistema, privata eppure così strettamente intrecciata con il pubblico, odiata e amata dalla politica che gli Agnelli stessi (e i loro grandi manager da Valletta a Romiti) hanno odiato e amato, allacciando un’ambigua relazione fatta di scambi a tutti i livelli. Ha coinvolto i giornali come i lavoratori, i sindacati e i partiti (basti ricordare la Uil oppure Valletta, Saragat e la nascita del Psdi, esempi stranoti), gli affari interni (la diga anticomunista e il piano Marshall del quale la Fiat ha preso una fetta tra le più consistenti) e gli affari esteri (l’asse americano, ma anche l’Unione Sovietica fin dai tempi di Stalin o la Libia di Gheddafi). Quella Fiat non c’è più. La storia ha chiuso la saracinesca e Marchionne ha cominciato la traversata verso un’altra sponda.
Non tutta la secolare matassa è stata sbrogliata. Tra i fili più sensibili sul piano sistemico c’è la proprietà del Corriere della Sera (a parte i gioiellini di famiglia come Stampa o Juventus). Se il percorso avviato è quello che si dice, allora coerenza vorrebbe che Rcs uscisse dal perimetro Fiat per entrare tra le partecipazioni Exor. Perché mai gli azionisti di un’azienda che produce scavatrici, bus e macchine varie dovrebbero pagare per i giornali?
Il riassetto del più grande gruppo privato italiano in vista di una rinascita in chiave multinazionale, dovrebbe essere l’occasione per rompere i lacci e i lacciuoli che fanno dell’Italia il paese in cui il conflitto di interessi è regola.