La scorsa settimana è stata dominata, in Italia e in Europa, dalle tematiche del lavoro e della crescita. A livello italiano si è giunti, ponendo la questione di fiducia, all’approvazione da parte del Senato della legge quadro (prevede un’ampia e per alcuni aspetti poco chiara delega al Governo) sulla regolamentazione di base dei contratti di lavoro. A livello europeo, la conferenza dei Capi di Stato e di Governo tenuta a Milano ha riguardato i problemi occupazionali nell’Unione europea; i temi della conferenza dovrebbero essere ripresi in modo formale dal Consiglio europeo del 23-24 ottobre, dove si parlerà di crescita economica, anche se il tema principale all’ordine del giorno (per quanto si può leggere sinora sulla documentazione ufficiale) è la politica energetica (elemento comunque importante di qualsivoglia politica di sviluppo, soprattutto a ragione della situazione tra Federazione Russa e Ucraina e della guerra in corso in Medio Oriente).
Che conclusioni trarre? Ovviamente tanto il Governo quanto l’opposizione sostengono che gli esiti della settimana sono stati in linea con le loro aspettative e ambizioni. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi avrebbe indubbiamente preferito che la normativa quadro sul lavoro fosse approvata prima della conferenza europea: ciò gli avrebbe dato modo di mostrare ai partner che l’Italia si è concretamente avviata su un percorso di riforme strutturali. Invece, la conferenza si è svolta proprio mentre gli schermi televisivi mostravano una battaglia molto intensa nell’aula del Senato e si è conclusa prima che la “chiama” per la votazione iniziasse.
A mio avviso, tuttavia, il Governo ha ottenuto un risultato per certi aspetti maggiore di quanto oggi suggerito da molti autorevoli esponenti dello stesso Partito democratico alla stampa. In una situazione in cui è oggettivamente difficile, ove non impossibile, andare alle urne (in mancanza di una legge elettorale che superi i vizi di costituzionalità rilevati da Palazzo della Consulta), il Governo ha ottenuta una doppia accettazione con un doppio beneficio d’inventario.
A livello europeo, le intenzioni “riformatrici” dell’esecutivo italiano hanno avuto un’apertura di credito (che potrà essere confermata o ritirata quando la legge di stabilità, il cui ddl deve essere approvato entro il 15 ottobre) che sarà all’esame delle autorità europei e dei nostri partner Ue. A livello italiano, l’arma della fiducia è stata utilizzata, in modo forse piuttosto disinvolto, per mostrare che anche in una materia tanto delicata come quella del lavoro e dell’occupazione si riesce a mettere insieme una maggioranza. Con grande astuzia, e forse un pizzico di cinismo, si è drammatizzato il Jobs Act (chiamato così perché fa tanto “obamiano”), anche se i suoi contenuti sono, per il momento, abbastanza modesti ed affidati a provvedimenti delegati.
La creazione di occupazione, infatti, non dipende tanto dalle regole su assunzioni e licenziamenti, quanto dalla crescita economica e da dinamiche imprenditoriali in materia di scelte tecnologiche. Pochi hanno notato che, proprio mentre infuriava la battaglia sul Jobs Act, uno studio pubblicato dal ministero dell’Economia e delle Finanze esamina il mercato del lavoro dal 1997 (“Pacchetto Treu”) alla legge Fornero, per valutare gli esiti dei cambiamenti. Conclusione: “La dinamica occupazionale è peggiorata, la flessibilità è una trappola”.
Lo studio si intitola “Valutazione di interventi di riforma del mercato del lavoro attraverso strumenti quantitativi“ e gli autori sono Germana Di Domenico, del Mef-Dipartimento del Tesoro, e Margherita Scarlato dell’Università Roma Tre. Nella prefazione è indicata la formula di rito “Il documento riflette esclusivamente le opinioni degli autori e non impegna in alcun modo l’Amministrazione”, la stessa che appare sugli studi di Banca d’Italia, Ocse, Banca Mondiale e via discorrendo. Tuttavia, il ministero dell’Economia e delle Finanze non lo avrebbe pubblicato con il proprio logo se avesse avuto seri dubbi sulla qualità dell’analisi e sulle conclusioni.
Attenzione: lo studio non vuol dire che le riforme effettuate negli ultimi anni quindi sono state inutili, ma che da sole non generano occupazione e lavoro. Possono servire a una migliore allocazione dello stock di occupati, e quindi contribuire alla produttività. Ma, specialmente in un Paese con una Pubblica amministrazione vasta e tentacolare e spesso utilizzata per celare disoccupazione, non è manipolando le regole dell’offerta di lavoro che si hanno più occupati (quale che sia la loro forma e il loro regime).
È da auspicare, quindi, che la tematica venga sdrammatizzata e non distragga l’attenzione da quello che può essere il vero nodo: la Legge di stabilità. Se conterrà forti sgravi alla tassazione su lavoro e su imprese (e misure per ridurre il debito pubblico) si potrà avviare un processo di crescita. Altrimenti, il beneficio d’inventario sarà stato una vittoria di Pirro.