Visto che vanno per le lunghe le trattative per formare un nuovo governo, anzi una maggioranza sulla quale si regga un governo, è molto probabile che Pier Carlo Padoan presenterà in settimana il Documento di economia e finanza, un testo per così dire tecnico, con le cifre chiave dell’economia italiana e del bilancio pubblico a legislazione invariata. Intervistato dalla Cnn a Washington durante i lavori della sessione primaverile del Fondo monetario internazionale, il ministro dell’Economia, neodeputato del Pd, è apparso molto cauto sugli sviluppi politici e anche sulla congiuntura economica, tuttavia dai pochi dati che sono finora filtrati una cosa appare chiara: la ripresa è finita e comincia una fase di sia pur lenta frenata.
Il prodotto lordo quest’anno salirà qualche decimale più del previsto, toccando l’1,6% invece dell’1,5%, ma scenderà già il prossimo anno e ancor più nel 2020 (+1,4% e +1,3%). Il Fmi è più pessimista: nel 2019 il Pil aumenterà di un punto o poco più. Ciò è la conseguenza di alcuni fattori esterni (la crescita si fa più lenta in tutta Europa come mostrano anche le previsioni del Fondo) e di un importante fattore interno: l’aumento dell’Iva e delle accise che, se non verranno presi provvedimenti, scatterà nel 2019 come conseguenza della clausole di salvaguardia che l’Unione europea ha imposto ai paesi che non rispettano i vincoli di bilancio.
I dati di gennaio e febbraio 2018 mostrano due segni negativi consecutivi per l’industria nell’area euro nel suo complesso e in particolare per Germania e Italia, i due paesi con la più pronunciata vocazione manifatturiera nel Vecchio Continente. Per l’Italia il dato di febbraio mostra un +2,5% rispetto allo stesso mese del 2017. Ma il dato si era avvicinato a un +5% alla fine del 2017. Non siamo ancora a un’inversione di tendenza, tuttavia sono indicatori da prendere sul serio. Per quel riguarda le clausole di salvaguardia, ricordiamo che risalgono al governo Berlusconi che, per veder approvata la manovra finanziaria, decise di garantire il rispetto dei vincoli comunitari promettendo che, nel caso di mancato raggiungimento degli obiettivi previsti (allora erano 20 miliardi di euro), sarebbe stato attuato un piano di revisione delle agevolazioni fiscali e sarebbe scattato l’aumento dell’Iva. Da allora tutte le leggi di bilancio sono dovute ricorrere a misure volte a sterilizzare gli aumenti previste dalla clausola.
Il governo Monti ha disinnescato buona parte della clausola (per 13,4 miliardi), ma non la previsione di un aumento dell’Iva a partire dal primo luglio 2013; il governo Letta ha posticipato la scadenza di qualche mese; Renzi grazie alla flessibilità ottenuta in sede europea, ha bloccato la tagliola per il 2016 e ridotto l’importo per gli anni futuri. La legge di bilancio 2018 ha messo a disposizione circa 15 miliardi di euro, ma l’eredità resta. Nel 2019 sarà necessario reperire oltre 12 miliardi di euro e nel 2020 quasi 20 miliardi. Dal primo gennaio 2019 l’aliquota Iva agevolata del 10% salirà all’11,5% a partire dal 2019 e al 13% a partire dal 2020: l’aliquota ordinaria del 22% passerà, invece, al 24,2% a partire dal primo gennaio 2019, al 24,9% dal primo gennaio 2020 e al 25% dal primo gennaio 2021.
Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, cancellare, in parte o in tutto, le clausole di salvaguardia, sostituendole con coperture alternative, sarebbe un’ipotesi “particolarmente ardua” da realizzare. Le imposte indirette da una parte consentono di migliorare il saldo tra entrate e uscite, ma dall’altra rallentano l’economia mettendo di nuovo a rischio il raggiungimento degli obiettivi. È questo il circolo vizioso che il nuovo governo dovrebbe spezzare, è il primo serio ostacolo che si presenta sul suo cammino. Un ostacolo invalicabile se i partiti che hanno vinto le elezioni vorranno tener fede alle loro promesse. Divisi sugli equilibri di potere, infatti, su un punto sembrano uniti: aumentare la spesa pubblica, redistribuire un reddito che ancora non è stato prodotto, distribuire una torta che si sta facendo già più piccola, non più grande.
Per finanziare il reddito minimo del M5S (la proposta presentata in parlamento non è un reddito di cittadinanza in senso stretto) occorrono almeno 15 miliardi. Quanto alla flat tax, per un’aliquota unica del 23% ci vorrebbero 40 miliardi l’anno che salgono a 60 con un’aliquota del 20% e a ben 102 con il mitico 15%. E via via spendendo e spandendo. “Sfondiamo il tetto del 3%”, dicono i vincitori con diverse sfumature. Ma che cosa significa? In concreto vuol dire che l’Unione europea apre una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia con costi finanziari pesanti e soprattutto un impatto politico devastante.
Qualcuno sogna di andare alle elezioni europee nel maggio 2019 cavalcando un sentimento di frustrazione e rivalsa, che diventerebbe rivolta aperta contro l’atteggiamento punitivo degli eurocrati di Bruxelles spinti dalla perfidia teutonica e dalla malizia gallica. Ma un governo spendi e spandi, con un debito pubblico pari al 130% del prodotto lordo, è difficile che duri un anno. Non corriamo troppo avanti, non si sa ancora chi governerà e come, se una rondine non fa primavera un solo gufo non basta ad annunciare l’inverno dello scontento.