Quando giovedì prossimo il Consiglio della Banca centrale europea si riunirà è auspicabile che i banchieri centrali nazionali e l’Esecutivo Bce facciano una riflessione profonda sul Quantitative easing e sulla capacità della leva monetaria di rimettere in moto da sola l’economia dell’eurozona, in particolare quella dei Paesi mediterranei.
Poco più di un mese fa la Commissione europea ha pubblicato le previsioni invernali per l’eurozona. Potevano sembrare dati positivi: una crescita dell’1,7% per il 2016 rispetto a una del 1,6% per il 2015 – quindi appena un decimo di percentuale in più. L’Italia – lo dice a tutto tondo un documento della Commissione datato 26 febbraio – resterebbe, dopo la Grecia, il fanalino di coda dell’eurozona, avviluppata in problemi di bassa crescita, produttività stagnante e alto debito che non sembra essere in grado di affrontare.
Il Qe ha senza dubbio evitato il tracollo di alcuni grandi istituti bancari europei, ma il suo “morso” sulla crescita reale della produzione e dell’occupazione è stato poco significativo, dato che lo sviluppo dell’eurozona resta pallido e gli ultimi dati Istat (4 marzo) dipingono un Italia sul punto di scendere in deflazione. Perché? L’editoriale del settimanale The Economist del 27 febbraio-4 marzo tratteggia l’Ue come una Torre di Babele in cui sui punti cruciale – sia interni (Brexit, Grexit, revisione del Fiscal compact e via discorrendo) – sia esterni – migrazioni in primo luogo – i singoli Stati e gruppi di Stati sono per un’Unione non sempre più stretta, ma in cui Stati e gruppi di Stati sono sempre più distanti.
Ricordo un saggio, ancora molto utile che Giuseppe Prezzolini, esule negli Stati Uniti, pubblicò nel 1948 negli Stati Uniti intitolato “The Legacy of Italy” (L’eredità dell’Italia) con l’intento sia commerciale (ossia di guadagnare diritti d’autore), sia di far conoscere il Bel Paese all’America. Una decina di anni dopo il libro, snello e acuto, venne pubblicato in italiano da Vallecchi con un titolo più pungente: “L’Italia è finita: ecco quel che resta”. In questi ultimi mesi ci siamo spesso chiesti se non sia il caso di fare un bilancio dell’Ue, quale concepita dai “padri fondatori”: un accordo di un numero limitati di Stati, ma con economie convergenti verso una costruzione politica federale oppure, quanto meno, confederale.
Un saggio di Yannis Karagiannis dell’Istituto di Barcellona di Studi Internazionali, apparso sull’ultimo numero del Journal of Common Market Studies, una delle più antiche e più qualificate riviste sull’integrazione europea, pone correttamente il problema sin dal titolo: “The Origins of the Common Market: Political Economy versus Hagiography”. L’analisi documentaria di Karagiannis dimostra che i “padri fondatori” avevano obiettivi più ristretti di quelli del federalista “Manifesto di Ventotene”. Pensavano a un’unione funzionalista degli Stati che si bagnavano sulle due rive del Reno e di pochissimi altri; utilizzando insieme risorse comuni per l’industria pesante e liberalizzando i commerci (con l’eccezione dell’agricoltura) si sarebbero impedite nuove guerre tra Francia e Germania che avevano insanguinato l’Europa per decenni.
Schuman, Adenauer e De Gasperi diedero alle idee tecnocratiche loro uno spessore politico. Tuttavia, l’unica “politica comune” allora immaginata, su richiesta di Parigi, era quella agricola per il peso che il settore aveva in Francia e per la forma particolare di protezionismo francese del comparto. Nessuno di loro pensava a un’Ue a 28 Stati o a una moneta unica. Solamente De Gaulle parlava di “un’Europa dall’Atlantico agli Urali”, un accordo molto flessibile e in funzione di quello che il Presidente francese pensava fosse un modo di equilibrare quello che considerava lo “strapotere” degli Usa. Il resto, sostiene Karagiannis, è “euromitologia”.
È sotto gli occhi di tutti il probabile, piuttosto che eventuale o possibile, sgretolamento dell’Ue a 28. Sotto il profilo economico, siamo da quindici anni alle prese con un gruppo di Paesi che affonda nelle stagnazione ed è spesso ai bordi della deflazione: il consenso generale è che un’unione monetaria prematura e forse mal concepita sia alla base della divergenza che ha rimpiazzato la convergenza agognata dai “padri fondatori”. Sotto il profilo politico, la risposta alle migrazioni dal Nord Africa e dal Medio Oriente indicano che le differenze di valori si sono accentuate, come dimostrato da vari studi di Luigi Guiso (il più recente è il Chicago Booth n.15/23 scritto con Paola Sapienza e Luigi Zingales). In numerosi Paesi dell’Ue, infine, si rafforzano movimenti e partiti anti-europei che vorrebbero rinegoziare il Trattato di Maastricht e lo stesso Trattato di Roma.
Stanno crescendo le probabilità che uno degli Stati più importanti dell’Ue, la Gran Bretagna, dica, dopo un referendum, addio all’Unione ove nonostante il resto degli Stati abbiano concesso profonde riforme nella sua governance nel senso di una drastica riduzione delle funzioni e dei poteri della Commissione europea, di un rafforzamento di quelli del Parlamento europeo e di un’evoluzione verso accordi intergovernativi anche a geometria variabile.
In questo contesto, occorre ragionare seriamente sui limiti della politica monetaria e se sia saggio avere una politica monetaria comune se diverge non solo sugli obiettivi e sulle strategie ma anche sui valori. Ciò non significa che il “tagliando” al Qe debba concludersi con la definizione di un percorso per sciogliere gradualmente l’eurozona (come avvenuto per quasi tutte le unioni monetarie nate dopo la fine della Seconda guerra mondiale), ma con un invito a mettere in atto politiche e strategie di convergenza economica. Dato che “i valori” sono connaturati a ciascuna società e non possono essere né imposti, né pilotati.