Le primarie “abbreviate” del Pd hanno dato il loro prevedibile responso: primarie “ristrette”, fondamentalmente i numeri sono un terzo rispetto all’ultima volta; Pd in proiezione analogica tendenzialmente “più piccolo”; Renzi “più grande”. Si trattasse di una ristrutturazione aziendale, si dovrebbe parlare di una ristrutturazione che rimpicciolisce l’azienda, ma rafforza l’azionista di maggioranza, che probabilmente non avrà bisogno neanche degli alleati della sua mozione (Franceschini, Martina, Orfini) per controllare assemblea, direzione e partito.
In sostanza era quello che Renzi voleva per uno scenario politico, dopo la sconfitta al referendum, che non offre certezze strategiche per il futuro (quale credibile maggioranza di governo da reggere da soli o in condominio nella prossima legislatura?), ma solo orizzonti tattici, navigazione a vista per capire quale sarà il momento opportuno per impegnare lo scontro elettorale.
Insomma, persa per sua colpa la “grande armada” delle europee, affondata nella sconfitta referendaria, Renzi si è attrezzato per la guerra di corsa. Nell’attuale quadro politico ha bisogno della massima agilità sul ponte di comando, e “noi” e “umiltà” ne saranno solo il paravento narrativo. Dal suo punto di vista, e dell’ormai “suo” Pd, è persino comprensibile. Meno comprensibile come Franceschini, Orlando ed Emiliano abbiano potuto credere — secondando Renzi in un congresso anticipato che di fatto significava costringere ad uscire Bersani — che avrebbero potuto impedire a Renzi l’Opa personale sul partito, unica reale garanzia di sopravvivenza politica al disastro del 4 dicembre della sua leadership.
Ma è cosa fatta, ed è difficile escludere che quadri e simpatizzanti Pd, che avevano affidato a Orlando ed Emiliano l’esigenza di non “renzizzare” il Pd, restino al seguito dei generali che hanno perso e che non ne possono più tutelare una diversa visione del Pd, e per quanto riguarda i quadri neanche i destini personali. La coperta, quale che sarà la legge elettorale, è stretta, e troppi piedi resteranno scoperti.
Questo per il “politichese” caro al ceto politico. In coda al quale resta però la “politica”, cioè il bisogno di governabilità del sistema nella prossima legislatura, che dovrebbe consentire agli italiani quanto meno una possibilità di maggioranza parlamentare per quanto variabile sia la sua geometria, per evitarsi l’ipotesi di scuola ma irrealistica di larghissime intese a danno dei soli 5 Stelle. E qui sarebbe necessaria una legge elettorale che, senza illudersi di alterare la realtà multipolare del quadro politico, ne ritocchi quanto meno la fotografia premiando prospettive di coalizione o almeno non deprima ulteriormente la partecipazione, facendo scegliere agli elettori i loro rappresentanti in parlamento.
Insomma se proporzionale deve essere, che sia almeno un proporzionale leale con gli elettori, ne sia rappresentativo senza giochi a tagliar fuori alzando le soglie di ingresso in parlamento. E in questo quadro converrebbe proprio alle possibilità “coalizionali” del Pd — prima del voto nelle urne (se la legge elettorale lo consentisse), o dopo il voto in Parlamento — una crescita dell’avversato Mdp come perno delle forze, a cominciare da Pisapia, che insistono alla sua sinistra; insomma che Mdp recuperasse a sinistra i tre milioni e mezzo di voti persi per strada da Renzi (confermati nel dimezzamento dei votanti alle primarie nel centro-nord).
Qualche “responsabile” per la prossima legislatura. Suonare come fa Renzi il corno contro Mdp e la sinistra, tentando di dividerla, e dando più che ad intendere che preferirà un’alleanza con Berlusconi, non aiuta proprio il Pd. Perché non si capisce il motivo per cui il voto di Berlusconi dovrebbe abbandonarlo il Cavaliere impinguendo Renzi, se a Berlusconi si garantisce una preferenza di alleanza di governo. E’ un atteggiamento che si spiega solo, al netto dell’astio personale, in vista di una campagna elettorale che accrediti il voto a sinistra come voto “inutile” pensando di poterne recuperare una parte per istinto “governativo” a prescindere di un elettorato che ha abbandonato un partito già di governo! Una prospettiva inverosimile. Anzi è piuttosto credibile il contrario: che dopo la completa “renzizzazione” del partito nelle urne si restringa per il Pd ulteriormente il voto storicamente in capo alla “ditta” di estrazione diessina. Insomma Renzi ha scelto una linea che è un problema per la futura governabilità del sistema, per il Pd e alla fine anche per se stesso.