Il Financial Times di ieri è tornato a occuparsi dello stato di salute del sistema bancario italiano, com’è comprensibile a pochi giorni dagli scrutini in casa Bce sull’Asset quality review del sistema. Ancora una volta, come è già accaduto, le previsioni del giornale (ma anche quelle del New York Times) sono fortemente discordanti con le dichiarazioni dei banchieri e delle autorità italiane. La previsione comune in casa nostra, infatti, è che tutti gli istituti supereranno il test, magari con il ricorso a esami di riparazione, a suon di iniezione di capitali o di cessioni, per il Monte Paschi e il Banco Popolare. Ben diverso il quadro che emerge dall’opinione del giornale inglese: 5 istituti italiani su 15 subiranno rilievi più o meno critici, una percentuale superata solo dalla Germania.
Intanto il New York Times sottolinea i risultati di un report della Banca centrale europea che punta l’indice contro il calo di redditività del sistema, cosa che non stupisce vista l’asprezza della crisi. Basti al proposito citare i risultati del recente rapporto della Fondazione Rosselli da cui emerge un sistema solido anche rispetto al resto d’Europa, ma con una redditività calante e sempre meno sostenibile.
Tali considerazioni, per la verità, non sono affatto nuove. Ma nuovo è il contesto in cui vengono fatte. Compresa l’osservazione solo all’apparenza paradossale del giornale british: se la Bce approverà i conti del sistema senza fare rilievi sostanziali, si legge, farà un pessimo servizio all’economia italiana. Al contrario, se userà la mano pesante, il Bel Paese (e Matteo Renzi) potrebbero trarne largo vantaggio. Perché quest’osservazione? E fino a che punto la si può condividere?
Tanto per cominciare, in questi mesi molte cose sono cambiate nel capitalismo italiano, al punto che, dopo anni di attività a tasso ridotto, i dossier delle società finanziarie si stanno riempiendo di potenziali clienti. Non è una semplice ritirata, come ancor oggi viene dipinta la spinta all’integrazione internazionale, bensì la ricerca di un orizzonte sostenibile per un sistema che nel corso degli ultimi sette anni ha perduto circa un quarto della sua capacità produttiva (probabilmente la meno efficiente) e non può fare affidamento più di tanto sul mercato interno. Di qui alcune linee di tendenza.
A) L’esempio Fiat, ormai trasformata in Fca. Il gruppo ha una dimensione globale in cui l’Italia non pesa più del 10-15%, come ormai capita a un numero crescente di imprese. La società ne ha preso atto: in Italia proseguirà la produzione nella gamma lusso, ma ha scelto le soluzioni più ragionevoli sul piano finanziario convenienti (per la maggioranza) in materia di governance e di fiscalità. Non dissimile l’atteggiamento di Gtech. Impregilo ha messo in cantiere una soluzione analoga (Borsa a Wall Street, sede fiscale Londra), ma per ora il progetto è in stand by: se il costo del denaro si manterrà basso e l’Irap si ridurrà come previsto, l’emorragia potrebbe finire qui.
B) I gruppi di Stato sono alla vigilia di una drastica cura dimagrante. Finmeccanica, dopo aver proceduto alla cessione della divisione trasporti (Ansaldo Sts e Breda) aprirà il dossier dell’americana Drs. L’Eni si avvia all’uscita da Saipem. Enel punta a ridurre i debiti con una serie di dismissioni. Non esistono pretendenti italiani per gli asset in questione.
C) La Cina e i paesi del Golfo sono in prima linea nello shopping. In particolare, il fondo sovrano e la banca centrale di Pechino hanno investito in Italia circa 7 miliardi di euro, acquisendo quote strategiche in Cdp Reti e quote significative, anche sul piano simbolico, in Enel, Eni, Fca e Telecom Italia.
D) È finalmente partito il risiko delle tlc: si torna a parlare delle nozze fra 3 e Wind, Vodafone avanza su Fastweb. In questa cornice torna a muoversi, dopo anni di paralisi condizionata dalle incertezze al vertici, la galassia Telecom Italia. Si fa strada addirittura l’ipotesi di un incrocio con Mediaset Premium all’interno di un nuovo modello di business, basato sui contenuti. Finalmente, insomma, le prospettive di mercato contano più dei veti politici.
E) La vicenda Luxottica, paradossale quanto emblematica, sottolinea sia la difficoltà della staffetta generazione all’interno del nostro capitalismo, anche nei suoi casi più virtuosi, ma, dopo la drastica presa di posizione dei consiglieri indipendenti, dimostra che ormai in materia di governance il sistema Italia è perfettamente in linea con le best practices internazionali.
F) Mediobanca e Generali stanno finendo di smantellare la cassaforte che ha protetto (e fortemente condizionato) gli assetti del sistema. Di riflesso, gruppi come quello Pesenti hanno proceduto ad aumentare il capitale e a diminuire la dipendenza dall’estero. Si è ridotto intanto il cumulo di nodi che legano dinastie vecchie e nuove, talvolta con ricadute perverse (l’ostinata difesa della governance Ligresti, ad esempio).
In questo quadro si inserisce la questione bancaria. L’Italia ha bisogno di poli robusti ed efficienti, in grado di sostenere e favorire la trasformazione di un sistema che ha bisogno di banche protagoniste e proattive, sia ai piani alti del sistema, sia, ancor di più, sul fronte delle Piccole e medie imprese. La recente indagine di Nomisma dimostra che il sistema delle medie imprese (al netto di una fiscalità assai più esosa di quella tedesca) è in grado di sostenere la concorrenza di oltre Reno. Lo stesso non vale per le piccole e le piccolissime imprese, frenate da una dimensione inefficiente.
Tocca alle banche promuovere una grande stagione di integrazione. In particolare al sistema delle Popolari, cui viene chiesto il salto di qualità. Dopo gli Aqr e gli stress test (comunque opinabili) è importante procedere alla creazione di due poli aggregati attorno all’asse Popolare-Ubi e Bpm-Bper. Guai se stavolta i localismi, le pressioni sindacali o le strettoie giuridiche impediranno un’operazione che dovrà consentire di aggiungere a Intesa e Unicredit due altri cilindri Popolari.
Resta il nodo Mps, che potrebbe finire nel mirino di un istituto internazionale (il Santander, probabilmente), perché né Intesa, né Unicredit possono o vogliono aumentare l’esposizione sul mercato interno.
Chissà, forse non ha torto il Financial Times quando segnala che disporre di quattro grandi banche – con un minor peso debitorio e libere da prestiti zombie – sarà l’arma decisiva per la ripresa del Paese.