Può darsi che, al momento, sia rincuorato dall'”effetto Zedda”, il sindaco di Cagliari che passa al primo turno, ma il Matteo Renzi che appare in conferenza stampa nella sede di via del Nazareno ha un sorriso di circostanza, per nulla convincente, durante il confronto con i giornalisti nel dopo amministrative. E sotto sotto, maschera la sua inquietudine.
Ha una voglia matta di ribadire la valenza diversa del voto del referendum di ottobre sulle riforme costituzionali. Ma questa volta, con le cifre e le percentuali delle città italiane che hanno votato, che girano da tutte le parti, la recita gli riesce male, perché sa benissimo che il voto delle amministrative lo boccia sul piano nazionale. Anche se ha tutto il tempo di recuperare, il 5 giugno segna il primo scricchiolio di una marcia che pareva quella dell’Aida.
“Il Pd? — dice il premier nella veste di segretario —. Noi non siamo contenti, non siamo come gli altri che indossano il sorriso di ordinanza, volevamo fare meglio soprattutto a Napoli, dove c’è il risultato peggiore del Pd”. Breve stupore generale, è solo un passaggio di convenienza per poi uscire di nuovo come “invincibile”.
In realtà, il sorriso d’ordinanza lo ha stampato in faccia proprio il premier che, dopo due anni e mezzo di governo, misura sulle amministrative di oltre 1300 comuni, con importanti città italiane tra cui Roma e Milano, un’azione di governo che non convince e che fa perdere consensi al Partito democratico e che accresce una disaffezione, scambiata comodamente come “allineamento all’affluenza alle urne dei grandi paesi democratici”. Buona notte e sogni d’oro.
Domenica notte, quando erano ancora in corso gli scrutini, al Nazareno c’era una di quelle riunioni barricate, probabilmente incazzose e al calor bianco, dove si doveva decidere la strategia di comunicazione. Roberto Giachetti, a una certa ora, prendeva il ciclomotore e andava via dalla sede senza rilasciare dichiarazioni. Anche il milanese Giuseppe Sala rinviava le dichiarazioni alle tre del pomeriggio di lunedì. E così faceva del resto anche la napoletana Valeria Valente, arrivata alle amministrative dopo primarie discusse e incappata nel risultato “peggiore”, quello che l’ha esclusa addirittura dal ballottaggio.
E’ evidente che di fronte alla situazione critica di questo Pd, che guardava con finta sufficienza al risultato delle amministrative, il segretario ha dovuto stabilire la sua linea per l’opinione pubblica, neanche fosse Walter Lippmann, e prima che qualche Guerini o qualche Serracchiani riservassero parole in libertà da lasciare annichilite le platee televisive.
Renzi, “rottamatore” e decisionista, ha imposto la linea del contrappello e del silenzio notturno, ma alla fine ha fatto la figura di un “furbacchione” preso con le mani nella marmellata. Per due motivi. Primo perché, ieri, dopo l’ammissione della delusione, il segretario del Pd riprendeva subito i suoi toni: “In tutti i casi su 1300 sindaci, il Pd ne porta quasi mille, ci siamo consolidati come comunità politica nazionale ed europea”.
Il premier aggiungeva qualche battuta da bar sport: “Da parte mia tanta solidarietà e tenerezza a quei politici che oggi brindano a percentuali da prefisso telefonico in città importantissime”.
Ma, in secondo luogo, domenica notte, forse ignorando le direttive comunicative e l’embargo di Renzi, forse per essere in linea con la sua onestà intellettuale, Piero Fassino, a Torino, rilasciava subito una dichiarazione dove commentava senza reticenze il perché, in una roccaforte di sinistra storica come Torino, fosse costretto al ballottaggio da una new entry politica come la pentastellata Chiara Appendino.
Senza mezzi termini, Fassino delineava un quadro nazionale, in cui rientra anche Torino, dove la crisi sociale, la crisi economica, l’incertezza sono fattori determinanti anche in elezioni di questo tipo. Naturalmente, ben pochi hanno visto questo commento come l’esatto contraltare alla linea di Renzi. Un onesto e limpido discorso di Piero Fassino che ha rovesciato l’analisi pressapochista di Renzi. In pochi hanno segnalato questo palese contrasto. Renzi ha preferito andare a ruota libera ieri a mezzogiorno. Ha annunciato il commissariamento per Napoli, una città ormai nel marasma sociale e politico, di cui si parla quasi con folklore e dove il Pd sembra ridotto a una forza marginale. Poi ha lodato Giachetti, il candidato romano, che è riuscito a entrare nel ballottaggio con Virginia Raggi, battendo a stento Giorgia Meloni, penalizzata soprattutto dalla miopia politica di Silvio Berlusconi (miopia magari anche interessata).
Quindi Renzi ha continuato nella sua narrazione, come si dice oggi, sostenendo che Giachetti “ha fatto un mezzo miracolo. Onore al merito. A Roma è stata una campagna molto difficile e ora c’è, è in campo. Se la giocherà al ballottaggio, vorremmo anche l’altro mezzo”.
Poi, tirando il fiato per queste spiacevoli e obbligate circostanze di necessario commento, Renzi è ritornato a parlare del referendum di ottobre. La sua vera partita, a quanto sembra. Non ci sarà nessun impatto per il risultato delle comunali: “Con i ballottaggi si riparte sempre dallo zero a zero, auguri e in bocca al lupo. Comunque sarà un giudizio locale a decidere”. Il premier lo ribadisce a scanso di equivoci, parla come se volesse convincere per primo se stesso. La teoria di Renzi è autoconsolatoria: “Gli italiani votano sulla base di ciò che propone l’esperienza amministrativa locale, sanno scegliere, fanno zapping sulla scheda elettorale”.
Nessun test nazionale: Sono partite profondamente diverse. “Ho detto che non avrei dato valore nazionale alle amministrative e mi pare di essere stato un buon profeta. Allo stesso modo confermo che il referendum avrà ripercussioni sul governo”.
A tratti ridanciano, a tratti smemorato, a tratti irridente, il presidente del Consiglio dimentica che può rischiare di perdere a Milano. Tanto per citare una grande città su cui ha puntato tanto. E pensare che, immaginando una vittoria, aveva detto che a Milano si doveva tirare solo un calcio di rigore. Forse dovrà accontentarsi di una punizione dal limite, se tutto va bene.