In apparenza tutti contenti, in realtà né Berlusconi né Renzi possono gioire dell’intesa al ribasso raggiunta sulla legge elettorale. Un’intesa che lascerà il segno, e probabilmente non sarà un segno affatto positivo.
Il Cavaliere, ad esempio, si è risoluto a scegliere il male minore al termine di una trattativa concitata, che è andata pericolosamente vicina alla rottura. Rompere però avrebbe significato consegnarsi all’irrilevanza, uscendo dal gioco delle riforme e della riscrittura delle regole per il voto. Tra le ipotesi in campo quella targata D’Attorre, cioè approvare l’Italicum solo per la Camera, è parsa la soluzione meno dannosa, perché i tempi dovrebbero essere brevi. E se l’abolizione del Senato tardasse e si finisse per andare a votare con due modelli differenti, il problema sarebbe tutto di Renzi, che dovrebbe spiegare agli elettori le sue scelte, e sopportarne le conseguenze, cioè l’impossibilità di avere un vincitore a palazzo Madama, dove si voterebbe con il proporzionale puro disegnato dalla Corte costituzionale.
Mille volte peggio sarebbero state le altre due ipotesi, quella avanzata da Lauricella, di agganciare la legge elettorale alla riforma del Senato, giudicata un rinvio sine die, e quella proposta da Pisicchio, l’entrata in vigore delle nuove regole 12 o addirittura 18 mesi dopo la loro approvazione. In questo caso l’accusa è quella di una eccessiva rigidità.
Certo, il disappunto che Berlusconi manifesta nei comunicati ufficiali rappresenta solo in parte la delusione cocente del Cavaliere, secondo cui il premier “non tiene i suoi” e “si è venduto molto più di quello che poteva”. Si racconta di una telefonata notturna che avrebbe raggiunto Berlusconi attraverso Verdini, con cui da Palazzo Chigi si faceva sapere che tenendo duro sul patto del Nazareno ci sarebbe stato il rischio di finire battuti in Parlamento dal saldarsi dei mal di pancia centristi con la minoranza democratica e le opposizioni. “Accetta, o andiamo sotto”, sarebbe stato più o meno il consiglio. Un’ammissione di impotenza da parte del premier che avrebbe convinto Berlusconi a non irrigidirsi.
Fare avere a Berlusconi un messaggio del genere per Renzi ha significato dover prendere atto di non avere il pieno controllo né della maggioranza che sostiene il governo, né – ed è cosa ancora più grave – del proprio partito. In casa democratica, anzi, c’era chi voleva stravincere. La minoranza interna ha cercato di mantenere i propri emendamenti all’Italicum, poi è stata convinta al ritiro quasi totale. Resta però la possibilità di imboscate nel segreto dell’urna, dal momento che rimangono in campo proposte emendative su temi delicati come le soglie di sbarramento o le preferenze, presentati da Ncd, Sel e 5 Stelle. Su una parte degli emendamenti il voto potrebbe essere segreto, con tutte le incognite che questo comporta.
Renzi per il momento ha preferito vedere il bicchiere mezzo pieno e rivendicare un successo politico, ma fra i suoi uomini ha cominciato a serpeggiare l’idea che sia velleitario arrivare al 2018 in una situazione tanto precaria. Avanza l’idea di un voto politico il prossimo anno, per capitalizzare le prime realizzazioni, a partire dalla riforma del mercato del lavoro, e subito dopo la cancellazione del Senato.
“Questo – spiegano renziani della prima ora – non è affatto il governo Renzi, non può durare a lungo”. Per farlo, occorre un profondo ricambio del gruppo parlamentare, dove gli uomini del segretario sono appena una cinquantina, al netto di chi è precipitosamente salito per opportunismo sul carro del vincitore. Parecchio dipenderà dall’esito delle europee di maggio: se il risultato sarà modesto, o appena discreto, vorrà dire che il governo non è percepito come abbastanza innovatore, prigioniero com’è dei veti incrociati, così l’ipotesi del voto nel 2015 acquisterebbe subito consistenza, perché Renzi avrebbe bisogno di una legittimazione piena.
Tornare alle urne nella primavera del prossimo anno è uno scenario apprezzato anche da Berlusconi, che ha bisogno di un po’ di tempo sia per definire la sua posizione giudiziaria, sia per riorganizzare il suo partito, ma non può attendere sino al 2018. Così, quella che oggi appare come una vittoria di Alfano, del suo Nuovo Centrodestra e dei centristi (con l’unica eccezione di Scelta Civica, che invoca un vertice di maggioranza) potrebbe rivelarsi fra qualche mese una trappola mortale per chi oggi esulta per aver frenato l’impeto renziano.