L’operazione “Qe perenne” prosegue. Il tasso di inflazione annuale dell’eurozona è infatti sceso a giugno all’1,3% contro l’1,4% di maggio, notizia che dovrebbe segnalare un rinvio del tapering degli acquisti, ma i mercati l’hanno salutata mantenendo solo un timido rialzo: il dato, infatti, è comunque superiore alla stima del consenso degli economisti a +1,2% anno su anno, mentre l’inflazione core preliminare, sempre nel mese di giugno, è aumentata dell’1,1% anno su anno, al di sopra delle attese degli economisti a +1%. Insomma, sopra le attese ma in flessione sulla serie a base mensile. Segnale misto. Ma vediamo qualche dettaglio.
I prezzi dell’energia hanno registrato un aumento dell’1,9%, in calo rispetto al 4,5% di maggio, quelli dei servizi sono saliti dell’1,6% contro l’1,3% di maggio, quelli di alimentazione-bevande-tabacchi sono rincarati dell’1,4% (1,5% in maggio) e i beni industriali non energetici hanno infine registrato un aumenti dei prezzi dello 0,4% (+0,3% il mese precedente). Interpellato da Dow Jones, ecco come un analista ha descritto la situazione: «L’inflazione dell’Eurozona ha battuto le attese, ma resta su livelli bassi e non giustifica un inasprimento della politica monetaria da parte della Bce. La paura che l’indice dei prezzi al consumo possa accelerare velocemente non c’è nei fatti. La lettura core è appena sopra l’1% e anche quella più allargata manca di dinamismo ed è tornata ben sotto il 2%». E ancora: «Il target della Bce è lungi dall’essere raggiunto e sui mercati, dopo il discorso del presidente, Mario Draghi, a Sintra di martedì, c’è stato un allarmismo troppo elevato su una possibile riduzione degli stimoli monetari». Prezzatura già avanzata? «Dopo l’accelerazione dell’inflazione tedesca, tale risultato era abbastanza scontato. Solo un rallentamento del dato francese poteva impattare in modo significativo su tutta l’Eurozona. Dal punto di vista delle Banche centrali, la politica monetaria estremamente accomodante dell’Eurotower proseguirà, senza grossi cambiamenti».
Insomma, egoisticamente parlando, per chi ha bisogno che il Qe prosegua onde evitare tracolli, buone notizie. Il problema è che la narrativa di Draghi è ontologicamente falsa, come quella di tutte le Banche centrali. E a confermarlo ci pensa un’istituzione non certo tacciabile di populismo come l’Institute of International Finance, la quale periodicamente ci aggiorna sul livello di leverage cui è esposta l’economia mondiale: in parole povere, quanto debito è stato creato rispetto al Pil. Questo grafico ci mostra il livello toccato nel primo trimestre di quest’anno: il debito globale ha sfondato un nuovo record, arrivando a 217 triliardi di dollari, più o meno il 327% del Pil mondiale, 50 triliardi in più negli ultimi 10 anni.
Ora, al netto delle idiozie spacciate da Wall Street per pulirsi la coscienza, ovvero che è in atto un deleverage reso possibile proprio dall’operatività delle Banche centrali, la domanda seria è un’altra: se come ci dicono, l’economia mondiale è in crescita a livello sempre più sostenuto e sostenibile, se siamo nell’epoca della cosiddetta “crescita coordinata”, com’è che l’indebitamento sale sempre di più, ormai a livelli da fantascienza? Forse perché ci spacciano ancora come driver dell’output mondiale la Cina, la quale al netto dei magheggi e della manipolazione monetaria (che però Trump non vede utilitaristicamente più come un problema, visto che Pechino ha smesso di scaricare debito Usa), vede il suo carico di debito sorpassare allegramene il Pil con ratio 300%?
E attenzione alle dinamiche sotterranee che sottendono questo trend, perché se è vero che recentemente le emissioni di debito del settore finanziario si sono moderate, soppiantate proprio dalla creazione virtuale di moneta da parte della Banche centrali, quelle del settore non-finanziario (l’economia reale) stanno continuando a salire, tanto che nel primo trimestre di quest’anno hanno toccato il massimo record del 242% del Pil. Ora, al netto di numeri simili, la perpetuazione del Qe cosa rappresenta, se non l’accanimento terapeutico verso un’economia finanziariazzata giunta al suo stadio terminale? Che senso ha, in un contesto simile, seguire gli andamenti inflazionistici mese per mese, quasi fossero l’oracolo di Delfi che ci vaticina se moriremo subito o tra qualche mese?
Ha un senso, invece. E la conferma è arrivata l’altro giorno, quando per la prima volta dallo scoppio della crisi del 2008, quando la Federal Reserve iniziato i suoi stress test annuali sulle banche americane, la Fed ha promosso tutte le principali istituzioni finanziarie degli States. Trentadue su trentadue, en plein. Derivati? Sofferenze? Credito allegro? Buybacks di massa? Chissenefrega, l’importante è che il casinò resti aperto ancora per un po’. E fiocchino soldi, visto che i dividendi distribuiti sono al massimo da 10 anni. Tutti gli istituti Usa hanno dunque ricevuto il semaforo verde: questa volta avevano chiesto di distribuire quasi il 100% dei loro utili attesi nei prossimi quattro anni, in netto rialzo rispetto al 65% emerso dagli stress test dell’anno scorso. Per l’esattezza, 32 banche tra cui Bank of America, JP Morgan, Citi, Wells Fargo e Morgan Stanley hanno ottenuto il via libera a premiare i loro soci. Il gruppo di carte di credito American Express ci è riuscito dopo avere rivisto i suoi piani e la rivale Capital One non ha ricevuto obiezioni, ma deve ripresentare entro fine anno un piano che risolva la «debolezza notevole nelle sue pratiche di pianificazione sul fronte dei capitali».
Subito dopo la diffusione dell’esito degli stress test, c’è stata una pioggia di annunci da parte delle banche che hanno superato le attese degli analisti. E guardate questi grafici: il primo ci mostra la crescita dei buyback programmati nei prossimi quattro anni (blu) rispetto agli scorsi quattro (arancio), mentre il secondo mette in fila il valore dello stacco di dividendi. Bank of America ha alzato il dividendo del 60% a 48 centesimi l’anno e lanciato un piano di buyback da 12,9 miliardi di dollari, mentre la cedola di Jp Morgan passa a 56 da 50 centesimi per titolo e il piano di riacquisto di azioni proprie arriva a 19,4 miliardi. E ancora, Citi raddoppierà il suo dividendo trimestrale a 32 centesimi per azione e riacquisterà titoli propri per un valore fino a 15,6 miliardi di dollari. Di più, nonostante lo scandalo di conti fantasma, Wells Fargo ha annunciato un rialzo del 36% della cedola trimestrale e un piano di buyback di 2,7 miliardi. Anche American Express premierà i soci alzando la cedola trimestrale del 9% a 35 centesimi e il riacquisto di azioni proprie a 4,4 miliardi, mentre Morgan Stanley pagherà una cedola trimestrale di 25 centesimi per titolo (+25%) e acquisterà titoli propri per 5 miliardi arrivando a distribuire il 103% degli utili attesi.
Praticamente il Bengodi: capito a cosa serve la pagliacciata della “crescita coordinata” e del continuo, assillante osservare i movimenti dell’inflazione? A fare in modo che la ruota del Qe continui a girare e che lorsignori, il famoso 1%, continui a fare soldi a palate. Il tutto, in un contesto che vede il debito globale al 327% del Pil. Vi pare una dinamica sostenibile? Sì, se Fed e soci continuano a sostenere artificialmente il mercato, fregandosene egregiamente dell’economia reale e dei cittadini. E il fatto che l’altro giorno Janet Yellen si sia detta sicura di non vedere un’altra crisi finanziaria, finché sarà alla guida della Fed, significa solo due cose: o che Donald Trump la licenzierà entro fine anno o che la Banca centrale Usa, magari per sostenere l’ammosciamento proprio delle prospettive entusiastiche verso la Trumpnomics, ricomincerà a stampare come non ci fosse un domani.
Conviene mettersi il cuore in pace, ormai l’economia è questa. E, soprattutto, conviene mettersi nelle mani di Dio, perché questa farsa criminale non potrà durare in eterno. E quando esploderà la bolla del debito, i defaults diventeranno la norma: chi, a quel punto, sarà così potente da salvare il mondo?