L’altra sera a Parma c’è chi giura di aver visto alcuni fra i maggiorenti della città ducale sorridere soddisfatti in direzione dei festeggiamenti dei grillini che festeggiavano la loro storica vittoria sotto il portico del Grano. È un po’ questa la conferma del segreto di Pulcinella, che i voti di ciò che resta dell’armata del centrodestra parmigiano ha approfittato del segreto dell’urna per votare Pizzarotti con l’intenzione di sbarrare la strada alla presa della città da parte della sinistra di Bernazzoli.
Probabilmente il loro è un calcolo superficiale, e di corto respiro, e non solo perché si potrebbe persino scoprire che i grillini sono capaci di governare. Parma è il paradigma dello stato comatoso in cui è ridotto il partito di Silvio Berlusconi.
Precipitato è il termine esatto: 4,7 per cento, addirittura ottavo posto in città. Superati persino da una rediviva lista del Comunisti italiani di Diliberto.
Eppure Parma era il fiore all’occhiello delle buone amministrazioni di centrodestra, con grandi opere in cantiere e la sede dell’Agenzia Europea per la sicurezza alimentare strappata da Berlusconi alla Finlandia per farne dono alla città ducale. Poi la giunta Vignali e il brusco risveglio sotto un’alluvione di 630 milioni di debiti provocati da amministratori a dir poco disinvolti.
Popolo della Libertà anno zero, quindi. E da Parma viene un’altra lezione: qui l’affluenza alle urne non è affatto crollata, 61 per cento al ballottaggio contro il 64 del primo turno. La gente è andata a votare perché ha visto un’alternativa possibile, condannando in questo modo i partiti tradizionali, tutti.
E c’è poco da consolarsi dalle parti di via dell’Umiltà con l’argomento che il Pd canta vittoria a sproposito, visto che si afferma con candidati non propri, come a Genova, oppure le busca, come a Parma o Palermo. Alfano contempla un cumulo di macerie, intorno al quale si aggira una folla dolente di ombre terrorizzate dall’aver perso le luci della ribalta, forse per sempre.
Non ci sono schieramenti precostituiti, si va in ordine sparso. C’è chi ritorna a Roma convinto che, invece di leccarsi le ferite per guarirle, il partito le lasci aperte con il risultato di favorire l’infezione. In parecchi sono convinti che sulla plancia di comando non ci sia la percezione di quanto gli elettori moderati si siano stancati dell’appoggio a Monti.
C’è qualcuno che stenta a frenare il desiderio di chiedere le dimissioni di Alfano, e altri che ribattono che un simile atto sarebbe un salto nel vuoto, perché si scatenerebbe il caos, non essendo possibile oggi alcuna successione ordinata.
In questa situazione di empasse in molti finiscono per invocare (per ora solo nei capannelli del Transatlantico) il ritorno di Berlusconi, la cui leadership sarà certamente appannata, ma alla fine è l’unica che c’è.
Invece di farsi definitivamente da parte è proprio al Cavaliere che viene chiesto di suonare la sveglia, magari con quell’annuncio a sorpresa promesso qualche settimana fa proprio per i giorni immediatamente successivi ai ballottaggi.
Unica certezza: un’operazione di maquillage non basterà, stavolta. Troppo poco cambiare il nome e il simbolo, gli elettori condannerebbero senza appello la ex balena azzurra all’estinzione.
Serve un’iniziativa politica tutta nuova, con un nuovo contenitore per i moderati e – con ogni probabilità – una nuova leadership. E il nome del leader di Italia Futura, Luca di Montezemolo, nonostante le ripetute smentite, continua a circolare.
Di sicuro in molti fra gli attuali parlamentari – a meno di un autentico miracolo – sono condannati a non tornare a Montecitorio e a palazzo Madama, sia per la esigenza di facce nuove, sia – anzi forse soprattutto – per la contrazione dei consensi. Anche per questo si guarda con apprensione alle trattative per la nuova legge elettorale.
Non si può certo chiedere al tacchino di essere felice, quando viene Natale, dicono gli americani.