Il comunicato stampa del Fomc di aprile, uscito ieri sera, pare mediare tra un ultimo trimestre 2014 che confermava un buon sviluppo economico nel Nord America e un primo trimestre 2015 che diffonde incertezza sulla solidità di questo sviluppo e accoglie attese di recupero limitato per il secondo trimestre del 2015 (il ciclo delle scorte per le aziende nordamericane ha dato un contributo positivo allo sviluppo del Pil nel primo trimestre, portando i livello dei magazzini a livelli superiori al normale, lasciando pensare che uno smontamento dell’apparente eccesso possa pesare in negativo nel prossimo trimestre).
In questa “mediazione” sta – ed è il fatto più significativo per i mercati – l’abbandono della guida esplicita sui tempi delle prossime azioni. I riferimenti canonici al tasso di inflazione, all’occupazione, allo sviluppo atteso dell’economia rimangono invariati nonostante il dato macroeconomico che ha preceduto di poche ore il comunicato, viene velatamente confermata l’attenzione al livello del cambio del dollaro.
L’ormai pluriennale preavviso ai mercati di un rialzo da attendere non più con pazienza (ma nemmeno con impazienza) dovrebbe avvicinarsi alla sua meta. L’attesa che stiamo vivendo rispetto a questo enormemente preannunciato rialzo dei tassi di riferimento sta per raggiungere quella, altrettanto lunga per le abitudini anche frenetiche dei mercati finanziari, dichiarata dall’ormai famoso “whatever it takes” di Mario Draghi nel pieno della prima crisi greca: “qualsiasi cosa” pur di salvare l’euro.
Stiamo iniziando ad abituarci anche a una comunicazione meno esplicita, per la gioia dei “Fed watchers”, dei patiti dei sopraccigli di Janet Yellen. Comunicazione che può produrre moderate sorprese, mantenute minime a causa dell’ancora prevalente timore associato alla novità che la mossa potrebbe avere per i mercati, ormai prevalentemente popolati da professionisti che non hanno mai vissuto un rialzo dei tassi, che hanno perso la sensibilità dei suoi effetti collaterali sui mercati dei cambi (la palestra pre-euro è scomparsa, volendo ne troviamo tracce nell’ormai famoso spread).
Scrivendo del Fomc, il ricordo delle altre aree valutarie risveglia le ipotesi di comportamenti coordinati. È raro assistere a manovre fondamentali di politica monetaria da parte di aree valutarie di peso gestite in totale ignoranza dei colleghi (se forme di coordinamento erano realizzabili già all’inizio del ‘900, con disponibilità comunicative certamente più povere di quelle odierne, come facciamo a ipotizzare un minore colloquio oggi?).
Il coordinamento possibile, quindi da cercare per completare la lettura dei comportamenti di una componente (qui la Fed), può offrire indicazioni complementari a quelle date dalla fonte autentica: la lunga attesa propostaci dalla Bce nell’inizio della sua azione, seguita dal recente inizio del suo intervento, che produrrà effetti rilevanti ancora per mesi, fornisce anche un potente ammortizzatore agli effetti di un rialzo Usa (la dimensione del flusso di euro portati ai mercati mese per mese non può essere considerata indifferente nei suoi effetti sui cambi e sui tassi dentro e fuori dell’area euro), la posizione di politica monetaria della Banca del Giappone spinge nella stessa direzione di quella della Bce (con apparente maggiore flessibilità), da ultimo anche la Banca centrale cinese si muove (come le precedenti per ragioni interne) contribuendo, come effetto secondario, ad ammortizzare l’eventuale “sorpresa” che la Fed è in procinto di consegnarci.
La sorpresa sarà certamente “data dependent”, seguirà quindi l’evoluzione dei dati sul mercato del lavoro e sull’inflazione, entrambi apparentemente in miglioramento graduale verso i desiderata della Fed, il dato del primo trimestre 2015 e soprattutto la sua componente “scorte” contribuiscono ad allontanare da giugno l evento.