Ormai la distanza tra le due maggiori banche centrali del mondo, la Federal Reserve e la Bce, sembra un abisso. Prima la Fed concedeva liquidità a piene mani (e pure alle banche europee, attraverso le loro filiali americane), mentre la Bce ci doveva pensare ogni volta e quasi forzare la mano alla Germania. Poi pure la Bce ha iniziato a iniettare liquidità a piene mani, grazie all’iniziativa di Draghi, ma sempre troppo tardi rispetto alle tempistiche della crisi. E l’esempio che tutti gli economisti critici riportano è quello della Grecia, quando un problema di liquidità causato da un debito di 300 miliardi di euro è diventato un costo finanziario (a causa della caduta delle borse europee) di migliaia di miliardi.
Infine, in questi ultimi tempi, a certificare un cambiamento nelle relazioni da parte americana, sono iniziate ad arrivare le critiche da parte del Fondo monetario internazionale sulle politiche di austerity imposte dalla Bce e applicate dai paesi europei. L’ultima di queste critiche è del premio Nobel Paul Krugman, il quale si chiede come mai vi siano ancora tanti personaggi a difendere le politiche di austerità, e come mai siano ancora così ascoltati, nonostante ormai il fallimento di tali politiche sia sotto gli occhi di tutti.
Così commenta Krugman: “In sostanza, le autorità della troika (il Fondo monetario internazionale, la Banca centrale europea e la Commissione europea) si sono rifiutate di ammettere l’ovvio e autorizzare un tempestivo default greco. Hanno al contrario preferito fare assurde dichiarazioni sull’efficacia dell’austerity, e così facendo hanno esteso il principio dell’economia ispirata all’austerità un po’ dappertutto”.
Ora il Fmi si è smarcato da questa posizione e, dopo un periodo di diplomatico silenzio, qualche suo esponente ha iniziato ad affermare pubblicamente che la politica di austerità era sbagliata. Rimane una sola motivazione a difesa di tale politica, ed è la giustificazione del controllo dell’inflazione. Ma tale giustificazione è forse valida in un periodo di crescita sostenuta, nel quale la crescita della produttività fa crescere prezzi e stipendi in maniera non equilibrata, a sfavore di questi ultimi (cioè gli stipendi crescono meno dei prezzi, quindi diminuisce il potere di acquisto).
In tale contesto, un ente che si impegnasse nel controllo dell’inflazione svolgerebbe un’opera meritoria. E questo è proprio il compito principale che si è data la Bce, fissato nei suoi statuti: il controllo dell’inflazione. E questo è proprio il motivo per cui, di fronte all’esplodere della crisi, al fallimento delle aziende e alla crescente disoccupazione, la Bce ha sempre risposto asetticamente e ideologicamente che “non è nostro compito”. Visto che la Bce non risponde ad alcuna istituzione del suo operato, fin dall’inizio si doveva porre la questione di un’istituzione che potesse porre in essere politiche monetarie contrastanti con le politiche economiche degli stati.
Ora quella triste ipotesi è divenuta realtà: la Bce fin dall’inizio del suo operato, nel 2001, ha avuto una politica monetaria eccessivamente espansiva, tanto che nel 2007 uno studio di tre economisti della Banca d’Italia si chiedeva come mai non vi fosse inflazione, visto l’eccesso di moneta creato dalla Bce. Cioè quello studio dava per scontato un dato che al grande pubblico (e a molti economisti) era ignoto, cioè l’eccesso di moneta creato dalla Bce e finito nei mercati finanziari.
Ancora oggi questo elemento è quasi mai portato alla luce e mai commentato (a parte la mia flebile voce!). Solo negli ultimi anni, dopo lo scoppio della crisi, viene considerato e soppesato, sempre in senso positivo, come se la creazione di moneta (esclusivamente per salvare un sistema bancario ridotto alla canna del gas) fosse automaticamente una creazione di valore. La mancanza di un vero dibattito sul tema ha evitato che fosse valutata anche l’ipotesi contraria: che la creazione di moneta fosse una distruzione di valore. In particolare, visto che la moneta è finita primariamente nei mercati finanziari, la distruzione di valore doveva essere relativa all’economia reale.
C’è un brano di Vangelo che ci aiuta a considerare il cuore della questione: è il brano che la liturgia della Chiesa ci ha proposto domenica. Gesù chiede ai suoi: “Cosa dice la gente che io sia?”. Perché Gesù fa questa domanda? Non sapeva già cosa la gente pensava? Aveva forse lui bisogno di sapere cosa pensasse la gente? O voleva rendere i suoi consapevoli di quanto stava accadendo anche nelle loro coscienze? La gente, frequentandolo frammentariamente, poteva farsi un’idea parziale di lui. Ma i suoi discepoli, che lo frequentavano tutti i giorni, dovevano avere un’idea più chiara. “E voi chi dite che io sia?”. La conoscenza viene da un’esperienza personale, sempre. Al massimo, può venire dalla mediazione di persone fidate, cioè di persone delle quali, sempre per esperienza, ci si può fidare. E solo questa conoscenza è in grado di sfidare il tempo, di resistere alle intemperie delle vicissitudini umane. L’affermazione “tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” non era frutto di una posizione ideologica, ma di un’esperienza di vita quotidiana che non potevano negare in nessun modo, tanto era evidente.
Ora per affacciarsi alla conoscenza, prima di fare affermazioni che rischiano di corrispondere a una visione ideologica, occorre porsi le domande cruciali. Cos’è l’Europa? Cosa sono i popoli europei? Cosa sono gli Stati? Cosa è la banca centrale? Nell’architettura degli stati moderni, la banca centrale è sempre stata il “prestatore di ultima istanza”, cioè l’istituto che, su imperio delle autorità politiche, per preservare il bene comune ha il potere di stampare quanta moneta necessaria. Ma la Bce, per statuto, non è prestatore di ultima istanza. La Bce è una vera banca centrale?
E la domanda riguarda pure la moneta: l’euro è vera moneta? Nel momento in cui l’euro, senza alcun coordinamento con le politiche economiche degli stati, viene creato in eccesso e finisce primariamente nei mercati finanziari, non è forse primariamente uno strumento finanziario e sempre meno una moneta utile all’economia reale? Una vera moneta non dovrebbe servire soprattutto all’economia reale?
Oggi viviamo la situazione paradossale per cui la moneta ufficiale, invece di favorire l’economia reale, ne è l’ostacolo: pagamenti che non si realizzano e transazioni che si rimandano per mancanza di euro. Ma l’euro è vera moneta? Cosa ci dice l’esperienza che facciamo tutti i giorni? A questa dobbiamo rimandare la nostra conoscenza, non a quello che media di tutti i tipi ci spingono a pensare. Il primato dell’esperienza: io non conosco nessun’altra religione che abbia questa impostazione così anti-ideologica, al di fuori di quella cristiana. E la stessa Dottrina cristiana è quella che afferma che il primato è per il lavoro dell’uomo, rispetto al capitale. Questo è il punto da cui ripartire per un nuovo sistema monetario. Altrimenti, anche il ritorno a una moneta nazionale non farà che spostare il problema, rendendo un popolo libero da vecchi padroni e schiavo di nuovi.
Ma il punto oggi non è questo. Tale punto non è nemmeno in discussione. Notizia di sabato, in sordina o censurata su tutti i media: i ministri delle finanze, riunitisi a Roma dopo 18 ore di riunione infruttuosa, non hanno raggiunto l’accordo su un meccanismo unico per il fallimento delle banche. Nello stesso giorno, la prima pagina del principale quotidiano economico d’Italia era dedicata alla tassa non pagata dal Ministro Idem.
A cosa si stanno preparando? Cosa non ci stanno dicendo? Si preoccupano del bene comune o di preservare il poteri della finanza a fronte della Grande Depressione in arrivo? “Questa crisi è peggio di quella del 1929”, ha detto il nostro ministro dell’Economia Saccomanni. E cosa stanno facendo per il bene del popolo?
Quello che occorre è una rivoluzione. Una rivoluzione prima di tutto culturale, altrimenti sarà solo violenza che favorisce nuovi potenti.