Ma il 10 marzo, alla fine dell’operazione di aumento di capitale da 13 miliardi di euro varata da Unicredit, nell’azionariato della grande banca di Porta Nuova spunterà o meno un “anchor investor”? L’orribile ibrido borsistico-marinaro – un po’ investitore, un po’ àncora – assurto agli onori del lessico cronistico nel caso, menagramo, del Monte dei Paschi di Siena, non è ancora stato usato, nel caso di Unicredit, ma non essendo una parolaccia, merita qualche considerazione. Perché il tema di fondo – e rispetto al quale è giusto, nell’interesse dell’azienda-Italia, non solo fare il tifo, ma anche darsi da fare – è che l’operazione “non può non andar bene”. Tecnicamente andrà sicuramente bene, cioè l’aumento di capitale riuscirà perché è stato garantito da un plotone di altre banche che compreranno le azioni che non dovessero essere acquistate dal mercato (previo commissioni per circa 350 milioni di euro, oggettivamente in linea con l’enormità del valore dell’aumento). Ma la domanda sull’identità di un “anchor investor”, che non trovando risposta ha spinto il Montepaschi tra le braccia dello Stato, nel caso di Unicredit cambia: tra i garanti dell’aumento, spunterà qualcuno disposto ad assumere la guida della proprietà della banca?
Se la risposta fosse “no” si porrebbe – a operazione conclusa – un improbabile scenario da banca “public company”, improbabile e transitorio, in un mercato che comunque procede a grandi passi verso aggregazioni e concentrazioni su scala crescente. E quindi quel “no” sarebbe comunque a termine. Ricordiamo le banche coinvolte nelle varie fasi dell’operazione: Morgan Stanley e Ubs saranno structuring advisor; Bofa Merrill Lynch, Jp Morgan e Mediobanca saranno joint global coordinator e joint bookrunner. Citigroup, Credit Suisse, Deutsche Bank, Goldman Sachs International e Hsbc co-global coordinator e joint bookrunner. Banca Imi (gruppo Intesa Sanpaolo), Banco Santander, Barclays, Bbva, Bnp Paribas, Commerzbank, Crédit Agricole Natixis e Société Générale joint bookrunner. Rispetto all’impegno a garantire l’operazione, tecnicamente, potrebbero ancora tirarsi indietro (a certe condizioni), ma non lo faranno.
Al termine della manovra, però, Unicredit resterà quella pseudo public company che è stata, con dentro un paio di fondazioni bancarie italiane a fare da ago della bilancia e talvolta da mosche-cocchiere (come la Fondazione Crt attraverso Fabrizio Palenzona) o comanderà Société Gènérale?Di certo per ora si sa solo che la Fondazione Cariverona, oggi titolare del 2,23% del capitale di Unicredito, si diluirà all’1,8% per limitare a 211 milioni il suo esborso. Invece Fondazione Crt sottoscriverà tutta la sua quota (e quindi per il suo 2,3% spenderà 300 milioni). Per statuto, le Fondazioni devono in qualche modo giustificare simili esborsi, visto che le loro finalità devono essere filantropico-sociali e non speculative o di potere, ed entrambe hanno evidentemente potuto giustificare l’imminente spesa in vista di una possibile futura rivalutazione e un possibile rendimento di questo investimento monstre.
La sostanza è chiara: oggi in Borsa Unicredit vale circa 16 miliardi, poco più dell’ammontare della ricapitalizzazione. Significa che i soci devono mettere dentro la banca quasi tanti soldi quanti ne vale, se non vogliono diluirsi. E devono scommettere sulla prospettiva che l’azienda si rivaluti in modo da corrispondere a questo loro investimento. Jean-Pierre Mustier, l’amministratore delegato, ha il merito di non essere corresponsabile delle vicissitudini a valle delle quali la banca deve oggi chiedere tanti soldi al mercato dopo averne già presi 7,5, di miliardi, nel 2012, e dopo aver accusato anch’essa, come tante e più di molte, sofferenze gravissime nei suoi attivi. Ha messo la faccia sull’operazione e sul relativo piano industriale molto severo che l’accompagna, e legato il grosso della sua comunque enorme retribuzione al buon esito di esso. Insomma, ha la sua credibilità.
Ma la domanda resta: agli occhi di quale investitore puramente finanziario può risultare conveniente un’operazione così impegnativa, se non resa attraente anche da una logica di natura strategica? Per quale ragione i due attuali, principali singoli azionisti di Unicredit – Capital Research Management Company (6,725%) e Mubadala Investment Company (5,042% attraverso Aabar) – dovrebbero sborsare centinaia di milioni di euro per continuare a poter sperare soltanto in dividendi comunque bassi o bassissimi (ben altro rendono le aziende energetiche o di rete) in un’ottica di puro investimento finanziario? Altro invece è investire per ottenere, accanto ai magri rendimenti, anche potere, prebende, incarichi, appalti e quant’altro. Per poter “comprare clienti”.
E dunque, fuori di metafora: sottoscrivere un aumento di capitale che incorpora uno sconto del 38% sui valori precedenti del titolo è un modo per comprare a buon mercato l’azienda. Lo farà qualcuno delle banche garanti? In particolare, lo farà Société Générale, di cui si parla da mesi? Sarebbe logico che lo facesse, nel solco di una palese ed economicissima “francesizzazione” di quel che resta dello smantellato sistema bancario e finanziario italiano. SG non ha mai confermato. Ma potrebbe essere lei “l’anchor” misterioso.