«Vediamo cosa succede con le misure del Governo». Così, tra il fatalista e il rassegnato, il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha risposto ai cronisti dopo che l’asta dei Bot semestrali di venerdì scorso ha fatto registrare un rendimento del 6,504%. E la poca propensione all’ottimismo di Visco è giustificata dal fatto che ieri il Tesoro ha collocato Btp a 15 anni indicizzati all’euro a un tasso de 7,30%, 2,70 punti in più rispetto l’ultima asta e oggi offrirà Btp a 3 e 10 anni per un ammontare complessivo massimo di 8 miliardi. E se il Tesoro spagnolo ha deciso di annullare l’emissione di obbligazioni a 3 anni prevista per questa settimana, per noi invece non è più possibile limare le aste in arrivo attingendo ancora al conto di disponibilità del Tesoro presso la Banca d’Italia, visto che come regalo di addio Giulio Tremonti ha lasciato in cassa solo 15 miliardi di euro. E quello che appare il “conto corrente dello Stato” è legato – in base al Trattato di Maastricht – al vincolo in base al quale non può mai presentare un saldo negativo, pena la sospensione immediata di tutti i pagamenti da parte di Bankitalia.
A confermare il pericoloso dimagrimento di cassa ci ha pensato il dato sul debito pubblico reso noto dieci giorni fa, ancora in calo, ma soprattutto per il decumulo delle attività del Tesoro presso la Banca d’Italia (-29 miliardi, a 15,6 miliardi). Tradotto, il decumulo è il crollo dell’ammontare del conto disponibilità. A fine agosto, questo risultava attivo per 44,6 miliardi, già calato parecchio dai 63,6 di luglio, ma a fine settembre, invece, è crollato a 15,6 miliardi. E a cosa è dovuto questo crollo di quasi 30 miliardi? Molto probabilmente alle mancate emissioni di debito sui mercati nel mese di agosto per cercare di bloccare gli aumenti dello spread. Bel lavoro, visti i risultati. Quindi, ora il Tesoro si trova con tre criticità: mercati obbligazionari ancora più nervosi e in cerca di rendimenti alti, una cartuccia d’emergenza in meno visti i pochi liquidi lasciati in cassa e, soprattutto, rischi di parziali insolvenze, visto che il conto deve essere sempre pronto all’uso per quando si accumulano scadenze e saldi di fabbisogno non allineati. Ma come ci ha dimostrato l’asta di Bund della scorsa settimana, andata pressoché deserta e con la Bundesbank costretta per l’ennesima volta a trasformarsi in acquirente diretto di debito per metà dell’ammontare totale, la crisi sovrana non è più degli Stati, ma dell’eurozona come insieme. E ora il timore che si agita sui mercati non è il già scontato e prezzato downgrade della Francia, bensì il rischio che sia la Germania a perdere il suo rating AAA.
La stampa britannica ne parla ormai chiaramente, scomodando un termine storico che mette i brividi quasi più di Weimar: Grunderkrack, più o meno il “crollo dei fondatori”, ovvero quanto accadde alla Germania nel 1873 dopo il collasso della Borsa di Vienna, all’epoca potentissima e che portò alla prima, Grande Depressione (il termine fu poi adottato per il crash di Wall Street nel 1929). La situazione dell’epoca, in effetti, ricorda un po’ quella attuale. La Germania aveva adottato da poco una nuova moneta, il gold standard, era passata attraverso un’unificazione e il sistema finanziario godeva dei pagamenti riparatori della Francia per la guerra franco-prussiana del 1871. Ma la cosa che rende più simile la situazione è che la Germania non era un Paese rifugio allora, come non lo è adesso, stando le aste flop e i rendimenti da pagare superiori a quelli britannici. I mercati, quindi, cominciano a chiedersi: la Germania, in questa situazione, vorrà e sarà in grado di salvare l’euro?
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Il problema è che una volta che questa domanda diviene ricorrente sul mercato, comincia a diventare un argomento anche per le agenzie di rating: è successo al debito Usa, sta per succedere a quello francese. Non esistono posti sicuri dove nascondersi dai vigilantes obbligazionari sovrani. Anche perché, al netto del deficit di budget annuale solo al 4,3% del Pil, il debito totale salirà quest’anno all’83,2% del Pil, non poi così sideralmente lontano dal 93,3% del Portogallo e più alto dell’82,3% francese e del 61% spagnolo. La Bundesbank, inoltre, ha rivisto le stime di crescita per il 2012 a solo lo 0,5%. Aggiungete al quadro il fatto che la Germania sarà comunque il principale contributore del futuro Fondo salva-Stati e che dovrà con ogni probabilità mettere mano al portafoglio statale per ricapitalizzare le sue banche (per prima Commerzbank che non riesce a racimolare 5 miliardi di euro sul mercato) e il rischio si fa concreto. E con un downgrade tedesco, addio euro da subito.
Già, cari amici, ormai non dobbiamo più pensare a come salvare l’euro, ma a come uscirne il più ordinatamente possibile e senza troppi scossoni globali. Se anche il prudente e compassato Economist, infatti, leva l’ipotesi di frantumazione dell’eurozona dal congelatore dell’imponderabile e comincia a esporla sulla bacheca del “worst case scenario”, allora vuol dire che siamo davvero messi male. A confermarlo, ieri, anche il ministro delle Finanze britannico, George Osborne, secondo cui «la crisi nell’Eurozona rappresenta una situazione difficile e pericolosa e un crollo disordinato avrebbe effetti estremamente agghiaccianti sul Regno Unito». Ma se Osborne mette in guardia, altri parlano decisamente più chiaro. Nella fattispecie, William Hague, ministro degli Esteri, il quale non solo ha detto a chiare lettere che la Bank of England ha già preparato dei contingency plans in caso di rottura dell’eurozona, ma, addirittura, attraverso il Foreign Office ha dato mandato alle ambasciate britanniche nell’eurozona di preparare piani per aiutare i cittadini britannici ivi residenti in caso di collasso della moneta unica, soprattutto in caso di fallimenti bancari – incapacità di ritirare contante – e violenze in seguito alla crisi, cioè scenari greci ovunque nell’eurozona. Insomma, non siamo più alla categoria del “se” ma del “quando”.
E ancora, la Fsa – la Consob britannica – ha chiesto con urgenza alle banche britanniche di rafforzare i loro contingency plan in caso di rottura dell’eurozona, visto che alcuni analisti pensano che l’abbandono dell’euro potrebbe comportare il dimezzamento – in alcuni casi estremi – del Pil di alcuni Paesi, scatenando disoccupazione di massa. I più attivi nella preparazione di report in tal senso, sono quelli di Ubs, secondo cui una rottura dell’eurozona potrebbe minare gli stessi diritti di base della proprietà e scatenare disordini civili su larga scala. Ma sarebbe davvero così devastante il cosiddetto “eurogeddon”? Non la pensano così, pur essendo interessati nel giudizio, al team valutario di BofA Merrill Lynch, i quali hanno dato vita a uno studio basato sul fair value delle principali monete continentali in caso di rottura dell’eurozona, offrendoci più di una sorpresa.
La conclusione della simulazione è che Spagna, Italia, Portogallo e Francia sono attualmente sopravvalutate rispetto al dollaro, Madrid addirittura del 20%, ma ad esempio l’Irlanda, nonostante i guai economici e finanziari (ha dalla sua un surplus di conto corrente, alti livelli di produttività e grande attrattività per gli investimenti esteri), è la più sottovalutata, mentre la Germania, che il comune sentire vorrebbe la più sottovalutata proprio a causa della penalizzante affiliazione all’euro, lo è invece solo per un 5%. Se quindi la Germania dovesse lasciare l’eurozona, dicono a Merrill Lynch, il fair value dell’euro perderebbe solo il 2% rispetto al dollaro, mentre se a lasciare fosse l’Italia, il valore salirebbe solo del 3%. Insomma, sulla carta nessuno scossone devastante, ma si sa che i modelli accademici sul fair value e le reali dinamiche monetarie non sempre vanno a braccetto. Anche perché, visto che nessuno sembra voler guardare in faccia la realtà e prepararsi di conseguenza, il break-up dell’euro non sarà ordinato e potrebbe mandare pesanti shock verso tutte le monete esposte. Ma a Merrill Lynch si dicono certi dell’accuratezza della loro analisi, spingendosi a dire che una volta che i nuovi tassi di cambio saranno stati decisi, il ritorno della Germania al marco non sarebbe affatto così negativo come pensato: anche all’interno dell’eurozona, il riallineamento monetario si stenderebbe fino a non più del 25%, mentre contro il dollaro solo del 5%.
Insomma, per Merrill Lynch un ritorno alle valute sovrane nell’eurozona potrebbe essere meno traumatico di quanto si pensi. Certo, per gli Usa sarebbe una manna e Merrill Lynch non è un’istituzione finanziaria bulgara. Ci sono, infatti, almeno tre criticità rispetto a una rottura disordinata dell’eurozona. Prima, gli aggiustamenti sui tassi di cambio sarebbero enormi e inaspettati e solo poche entità finanziarie sarebbe protette attraverso l’hedging a un’ipotesi simile. Insomma, i trasferimenti di ricchezza sarebbero caotici e destinati e mandare sotto terra la domanda aggregata. Seconda, le banche francesi e tedesche vedrebbe i loro assets esteri pesantemente rivalutati al ribasso, creando un vero e proprio shock bancario. Terza, se l’euro dovesse sparire del tutto come moneta, ci sarebbero enormi implicazioni finanziarie e legali legate alla gestione di tutti i contratti in essere denominati in euro, contenziosi destinati a risolversi solo dopo anni, periodo durante il quale il finanziamento stesso del commercio internazionale collasserebbe.
Insomma, smettiamola di perdere tempo prezioso per cercare di salvare l’euro: utilizziamolo piuttosto per cercare una via d’uscita ordinata e che crei meno danni possibili. Tanto più che gli scenari su cui studiare ci sono già, pronti da almeno un anno e sintetizzati in questa tabella del Financial Times
Troppo pessimistico il mio scenario, a fronte di Borse con il turbo sulla voce di un possibile accordo per eurobonds emessi solo dai paesi con rating AAA che andrebbero a finanziare i paesi in crisi a fronte di ulteriore cessione di sovranità? Forse, peccato che di Stati con quel rating tra poco ce ne saranno due in meno e che i rendimenti dei Bund ieri sono continuati a salire, segnale che il contagio ha toccato il cuore dell’eurozona. E poi se un primario intermediatore finanziario come Icap sta preparando piattaforme di trading nel caso la Grecia esca dall’euro e torni alla dracma, un motivo ci sarà. Lo hanno confermato domenica al Wall Street Journal alti dirigenti dell’azienda e Icap è solo l’ultimo soggetto del mercato a muoversi in tal senso: solo a Bruxelles, ormai, non hanno pronto un contingency plan. Da giorni, quindi, alla Icap stanno testando dei sistemi che permettano alla banche che operano come dealees di trattare la dracma contro euro e dollaro e hanno ricaricato gli schemi della vecchia dracma per spot foreign exchange e derivati, nella fattispecie Ndf (Non-Deliverable Forward, il contratto derivato più utilizzato per fare hedging sui rischi valutari, soprattutto sui mercati emergenti dove le valute non sono liberamente convertibili) .
Alla Icap hanno detto che tutto questo «è solo precauzionale», ma secondo voi, gente di quel livello perde tempo con test simili se non ha la quasi certezza di ciò che fa? La realtà parla chiaro: lo spread Euribor/Ois sta mandando segnali da crisi Lehman Brothers, con il costo per finanziarsi in dollari in Europa ormai a livello insostenibile, a fronte di necessità di finanziamento da 2 triliardi di dollari. I money markets statunitensi hanno chiuso i rubinetti verso le banche europee, la sola esposizione verso istituti francesi è scesa del 69% da maggio ad oggi. Il rendimento del Bund ha preso 59 punti base sui bond svedesi dalla fallimentare asta di mercoledì scorso a oggi e fondi e banche centrali asiatiche scaricano il debito dell’eurozona a più non posso.
Facciamocene una ragione, l’euro è fallito. Chi ci salverà? Magari la Fed, visto che già nel novembre 2002 Ben Bernanke toccò il tema in un discorso dal titolo “Deflation: making sure it doesn’t happen here”, una sorta di road map per le situazioni estreme. «La Fed può iniettare liquidità nell’economia in altri modi. Ad esempio, la Fed ha l’autorità di comprare debito governativo straniero. Potenzialmente, questa classe di assets offre molte finalità per le operazioni della Fed», disse Bernanke. Profetico.