Ho apprezzato il recente articolo di Giorgio Vittadini sui limiti che caratterizzano, nella parte di revisione del Titolo V, la riforma costituzionale sulla quale si voterà ad ottobre. Una lucida descrizione (l’esenzione totale delle regioni speciali, il depotenziamento del regionalismo differenziato, il rischio di un pervasivo centralismo) che ha colto nel segno ed evidenzia una ricetta inadeguata al ritorno all’efficienza della spesa pubblica.
In questi aspetti, del resto, la riforma costituzionale si pone in evidente antitesi con le conclusioni del recente rapporto della Fondazione per la Sussidiarietà, Sussidiarietà e … spesa pubblica, che guardando con preoccupazione al “processo di ri-accentramento delle decisioni e delle finanze“, suggerivano di “lasciare spazio a un decentramento differenziato, in cui maggiori competenze e risorse vengono attribuite a Regioni ed enti locali che dimostrano maggiori capacità amministrative” (pag. 13). E’ peraltro vero che la riforma costituzionale del Titolo V del 2001 ha dimostrato tutto il suo fallimento, danneggiando gravemente soprattutto il Sud con la sua logica egualitaria che ha assegnato un esagerato livello di autonomia anche a realtà che invece andavano — mi si permetta la semplificazione — commissariate.
E’ altrettanto vero che era necessario superare l’ormai obsoleto bicameralismo paritario e perfetto, in modo da semplificare il procedimento legislativo ed evitare quell’instabilità dei governi che, soprattutto a partire dalla seconda repubblica (quando alla continuità di linea politica comunque garantita nella prima, si è sostituito il bipolarismo manicheo della seconda), ha lacerato il Paese e impedito ogni serio processo di riforma. Mi è stato però insegnato che l’errore è una verità impazzita. E di verità impazzite questa riforma costituzionale ne contiene molte, che si evidenziano confrontandola con la proposta elaborata dai saggi nominati dal Governo Letta, istituita l’11 giugno 2013, che a mio avviso ha rappresentato, per qualità dei componenti e capacità di lavoro bipartisan, uno dei pochi momenti alti nella storia delle istituzioni degli ultimi anni.
I lavori di quella Commissione sono documentati nel volume Una democrazia migliore, edito dalla Presidenza del Consiglio, che ne riporta anche la relazione finale. Questa, ad esempio, riguardo alla legge elettorale (perché anche su questo tema essa è intervenuta) prevedeva, nel secondo turno, l’attribuzione del premio di maggioranza alla “coalizione” e non alla lista più votata, come invece pretende l’Italicum, forzando così l’effetto maggioritario con conseguenze poco rassicuranti in termini di tenuta democratica. Evidenziava poi l’esigenza della ricostruzione “di un rapporto di fiducia e di responsabilità tra elettori ed eletti“, che l’Italicum, tra cento capolista bloccati e candidature multiple, certo non garantisce.
Ma è soprattutto sulla riforma del Titolo V che gli accenti divergono fino a determinare esiti profondamente diversi.
La relazione prevedeva un riequilibrio tra regioni ordinarie e speciali, per favorire “un processo di riduzione delle diversità ingiustificate“. La riforma costituzionale, invece, le esenta del tutto da ogni revisione e stabilizza a tempo indeterminato una diversificazione che ormai da troppo tempo non ha più ragione di esistere. Si produce così un grave paradosso. Le regioni ordinarie, anche quelle virtuose, vengono consegnate al destino di vedere, per l’effetto “vampiro” della clausola di supremazia statale, travalicate tutte le loro competenze, anche in ambiti in cui hanno fornito prove eccellenti. Ad esempio i modelli di organizzazione della sanità di Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Marche, sono eccellenze mondiali. Lo dimostrano i dati Ocse che li pongono ai vertici assoluti nel rapporto tra qualità e costo del servizio. Il punto di forza di questi sistemi è la differenziazione: il modello lombardo è diversissimo da quello toscano, quello veneto da quello emiliano e così via. Ma la tutela forzosa dell’interesse nazionale, vale a dire dell’indirizzo politico della maggioranza, potrà consentire, attraverso l’esercizio della clausola di supremazia, di riaccentrare in modo egualitario tutta l’organizzazione sanitaria.
I costi derivanti dallo smantellamento di questi sistemi potranno essere enormi. Andrà così? Facile prevederlo, vendendo già, a costituzione vigente, alcune soluzioni imposte dalla riforma Madia, come la centralizzazione della nomina dei dirigenti della Sanità, sottratta alle regioni. Le regioni speciali, al contrario, vengono esentate del tutto dalla riforma costituzionale, anche in quei casi in cui l’autonomia davvero non ha funzionato, come in Sicilia, regione cui — come notava Vittadini — nemmeno si applicheranno i costi standard. L’esito sarà un sistema di regioni troppo ordinarie e di regioni troppo speciali. Ancora: la relazione prevedeva una legge bicamerale per la materia “coordinamento della finanza pubblica”. La riforma fa invece diventare questa materia competenza esclusiva dello Stato, non solo decretando la fine del principio di responsabilità impositiva, ma fornendo piena legittimazione ai tagli lineari statali che (come bene Vittadini documenta) hanno sempre scacciato la spesa buona e mantenuta quella cattiva.
La stessa Corte costituzionale, che facendo leva sull’attuale carattere concorrente della materia “coordinamento della finanza pubblica” vi aveva posto dei limiti, non avrà più molte armi per continuare a limitarli. In sintesi le verità impazzite della riforma costituzionale riportano il pendolo della storia sul centralismo e non sulla responsabilità. Ma quel pendolo non si può sballottare troppo radicalmente in modo indolore: probabilmente il nuovo centralismo oltre a smantellare i sistemi virtuosi farà anche riproliferare gli apparati statali: i costi saranno ingenti e certo non comparabili ai (risibili al confronto) risparmi che si otterranno eliminando gli emolumenti dei senatori.
Vittadini nella parte finale dell’articolo apre però una speranza: questa parte della riforma, se passerà, potrà (e dovrà) essere corretta. Fatico, purtroppo, a condividere questo ottimismo, sia per ragioni tecniche che politiche.
Il nuovo Senato che — come ha metaforicamente descritto Michele Ainis — sarà ridotto alla stregua di una suocera inascoltata che dà consigli non richiesti, condivide eppure il massimo potere normativo dell’ordinamento: le leggi costituzionali sono infatti bicamerali. Quindi per tornare a cambiare la costituzione occorrerà la maggioranza del Senato, che però è eletto in modo proporzionale e con una distribuzione dei seggi tra le regioni tale che solo in caso di vittoria del Pd ci sarà una maggioranza omogenea nelle due Camere.
Tuttavia, siccome nemmeno De Gasperi (che per rispetto dell’Assemblea costituente non prendeva parte ai suoi lavori), una volta vinte le prime elezioni diede spazio al pluralismo istituzionale (e le Regioni rimasero congelate sulla Carta per vent’anni), sembra difficile ipotizzare una maggiore nobiltà istituzionale nel nuovo vincitore. Peraltro, anche volendo ipotizzare che si voglia cambiare, rimane la questione del blocco delle regioni speciali che, intoccate dalla riforma nei loro privilegi ingiustificati, sono in grado di fare fallire ogni tentativo di riforma. Il nuovo assetto quindi, con le sue verità impazzite, sembra proprio destinato, se verrà confermato a ottobre, a rimanere a lungo immutato.