Il pensiero di Mattarella è noto da tempo e in questo momento diverge nettamente da quello di Renzi: “inconcepibili” elezioni anticipate senza prima avere allineato le leggi elettorali di Camera e Senato. Si badi bene, non si tratta di un’opposizione preconcetta allo scioglimento delle Camere, ma di un preciso percorso politico che il Capo dello Stato, alla sua prima crisi di governo, farà di tutto per imporre, convinto che questo sia l’interesse del paese, perché votare oggi con regole contrastanti avrebbe “forti rischi di effetti incompatibili rispetto all’esigenza di governabilità”.
Chi si sorprende oggi di una posizione tanto netta è un ingenuo, oppure è in malafede. Dal Quirinale sono partiti avvisi in tutte le direzioni sin da fine giugno, quando, all’indomani della batosta del Pd nelle amministrative, è parso chiaro che la bocciatura del referendum costituzionale era ben più di un’ipotesi. E l’eventualità è stata esaminata in tutte le sue possibili implicazioni.
I collaboratori di Mattarella si erano sgolati nello spiegare che sulla necessità di rendere omogenee le leggi elettorali il Capo dello Stato era irremovibile: non aveva alcuna intenzione di prendersi la responsabilità di elezioni anticipate che portassero a Camere di segno opposto. Messaggeri erano stati inviati in tutte le direzioni. Ma gli avvertimenti, evidentemente, erano rimasti inascoltati.
Anche sui propri metodi Mattarella aveva lanciato segnali inequivocabili per tempo: ultimo, una settimana prima del referendum, il discorso fatto agli studenti ricevuti al Quirinale, in cui descriveva il proprio modus operandi come più efficace se operato lontano dai riflettori.
L’impressione è che il primo a sottovalutare questa mole di segnali univoci sia stato Matteo Renzi. Il referendum ha segnato la fine del patto che aveva legato per 22 mesi premier e capo dello Stato. Il 4 dicembre le loro strade si sono separate: Renzi deve pensare alla propria sopravvivenza politica, e Mattarella al bene del paese. E le due visioni divergono in modo ormai evidente.
Renzi si è trovato di fronte a un vero e proprio muro quando lunedì è salito al Quirinale per discutere delle proprie dimissioni. La moral suasion di Mattarella si è rivelata un ostacolo insormontabile. Il capo dello Stato ha preteso (e ottenuto) il congelamento delle dimissioni per il tempo necessario ad approvare la legge di bilancio. Renzi ha tentato di opporsi, ansioso com’era di recuperare la propria libertà di movimento, ma alla fine ha dovuto capitolare.
Adesso Renzi sta maturando la scelta di correre verso il voto. Ma per la seconda volta in pochi giorni rischia di trovare in Mattarella un ostacolo inatteso. Prima — ha fatto sapere l’entourage di Mattarella attraverso un colloquio con l’Huffington Post — servono una nuova legge elettorale e, di conseguenza, un governo che assicuri una transizione ordinata. Si tratta di “una soluzione obbligata, prima che di buon senso”.
Secondo il Quirinale l’onere della proposta spetta sempre a Renzi, in quanto leader del partito di gran lunga maggioritario in parlamento. E qui si entra nel campo del toto nomi. Per una soluzione più politica, ma con la stessa base parlamentare di cui oggi gode il governo uscente, i nomi sono quelli di Delrio, Franceschini e Padoan. Se invece il tentativo è di allargare la maggioranza almeno a Berlusconi, l’unico nome plausibile è quello del presidente del Senato, Grasso. Contando che Renzi di Franceschini non si fida, e che Padoan è considerato alla stregua di Monti un po’ troppo freddo e tecnico, nelle ultime ore l’ipotesi di un esecutivo a guida Grasso sta crescendo di ora in ora.
Da sciogliere però nella trattativa fra Renzi e Mattarella c’è il nodo della durata di questo esecutivo dal profilo sostanzialmente istituzionale. Anche su questo le idee fra i due al momento divergono. Per il premier uscente è questione di una manciata di settimane. Per il presidente il tempo potrebbe essere parecchio più lungo perché “ovvie ragioni di correttezza istituzionale richiedono prima di andare a nuove elezioni di attendere le conclusioni” del giudizio della Corte costituzionale sull’Italicum, che si avvierà il 24 gennaio prossimo e impiegherà qualche giorno.
Se il Parlamento dovesse poi intervenire con qualche correttivo, lo scioglimento delle Camere non potrebbe ragionevolmente avvenire prima di metà febbraio, nella più ottimistica delle ipotesi. Contando che il tempo minimo fra scioglimento ed elezioni è di 45 giorni, prima del 2 aprile è impensabile andare a votare.
Renzi è bene che si dia una calmata, e si armi di pazienza, al pari di quanti scalpitano per correre verso le urne (Grillo, Salvini, Meloni). I tempi della crisi li detta il Quirinale, e si possono discostare da quanto qui esposto solo per allungarsi, non certo per ridursi. Mattarella lo sa, e difficilmente si schioderà dalle proprie convinzioni.