Ieri dall’Istat e dalla Banca d’Italia è arrivata una piccola infornata di indicatori economici. Ad aprile, rileva l’Istat, “il clima di fiducia peggiora sia per i consumatori sia per le imprese, in particolare, per le quelle manifatturiere”, che registrano “un netto peggioramento delle attese sugli ordini”. Sempre l’Istat segnala che a marzo “aumentano le esportazioni italiane verso i paesi extra-europei con una crescita del 4,5%, ma il saldo del primo trimestre resta negativo, con un calo del 3,4% rispetto al trimestre precedente”. In calo, nel primo trimestre, anche l’import (-0,7%). Intanto, nei primi tre mesi dell’anno “le banche hanno leggermente allentato le condizioni per concedere un prestito e di pari passo è leggermente aumentata sia la domanda di finanziamenti da parte delle imprese sia quella di mutui casa da parte delle famiglie”, come emerge dell’indagine Bankitalia sul credito bancario, che per i prossimi tre mesi prevede “un ulteriore miglioramento di tutte le voci”. Insomma, un piccolo cruscotto di segnali congiunturali da interpretare. Che cosa ci dicono? “Sono segnali da non drammatizzare, anche se certo non sono esaltanti” risponde Mario Deaglio, professore di Economia internazionale all’Università di Torino.
Partiamo dalla fiducia di imprese e famiglie che è in calo e dall’export che rallenta. Vuol dire che, dopo un 2017 tutto sommato positivo, la gracile ripresa italiana va incontro a un 2018 più complicato?
Sì, è così. Anche se il giudizio è provvisorio, perché lo scenario può ancora cambiare nei prossimi mesi, ma gli indicatori attuali vanno in una direzione di rallentamento.
Anche la domanda interna ha perso slancio…
I consumi erano ripartiti circa due anni fa grazie agli acquisti di automobili, sospinti dalla necessità degli italiani di dover cambiare un parco macchine assai vecchio. Adesso la spinta propulsiva di questa sostituzione va esaurendosi, anche in Europa.
Se la domanda di auto è destinata piano piano a smorzarsi, che cosa potrebbe aiutare i consumi interni?
L’Italia ha acceso due “motorini”: uno è il turismo, che sta andando molto bene, anche se si tratta di un turismo più modesto e più breve, e l’altro è il mercato edilizio delle ristrutturazioni. Ma questo secondo “motorino” servirà a poco se non verrà riavviato il motore dell’edilizia, specie quella pubblica, dove c’è molto da fare e invece non si investe quasi più nulla.
Alla luce di queste prime considerazioni che cosa dobbiamo aspettarci?
Che nel 2018 l’Italia potrà, tutt’al più, mantenere l’attuale velocità di crociera.
A proposito di consumi, recentemente il Fmi e l’Ocse hanno consigliato all’Italia, in un’ottica di miglioramento dei conti pubblici, di introdurre patrimoniali sulla ricchezza e sugli immobili e di aumentare l’Iva sui consumi. Per noi sarebbe un colpo durissimo, non crede?
Certo. Non è la prima volta che Fmi e Ocse propongono simili ricette assurde. Anche se capisco che la richiesta del Fondo monetario s’inquadra in un contesto di paura, di nervosismo, vista l’enorme crescita dei debiti pubblici nel mondo.
Anche l’import è in calo: per un’economia come la nostra, basata soprattutto su una manifattura di trasformazione, non è una bella notizia…
Dipende. Se il calo riguarda l’energia, può essere il risultato di trasformazioni tecnologiche virtuose che ci consentono un minor utilizzo di energia, il che sarebbe un segnale positivo. Se invece il calo delle importazioni riguardasse soprattutto altre materie prime, sarebbe un segnale da guardare con maggiore serietà.
Banca d’Italia fa sapere che aumentano i crediti alle imprese e i mutui alle famiglie. Le imprese come utilizzano questi prestiti?
Difficile dare una risposta puntuale. Si può, però, certamente osservare che questi prestiti non vengono più utilizzati per tamponare situazioni deficitarie, ma per una buona gestione dell’attività aziendale. Anche il nodo degli Npl si sta chiudendo e questo è un pericolo grave che potremmo, e dovremmo, evitare.
Resta il nodo degli investimenti. Come si possono rilanciare?
La domanda a cui bisognerebbe rispondere è che tipo di investimenti vogliamo realizzare. Nessun Paese può permettersi di non avere una politica industriale, cioè chiedersi dove vuole essere tra 10-20 anni e che tipo di economia vuole avere. Oggi nessun partito politico ce lo sa dire. Gli investimenti di base, come l’istruzione, sono necessari, ma oggi c’è incertezza, quasi una sorta di rifiuto psicologico ad affrontare l’argomento degli investimenti strategici. Non vediamo al di là dei sei mesi. Francia e Germania, al contrario, hanno idee, progetti e strategie ben chiare.
Intanto la Spagna ci ha superato come Pil pro capite. È l’ulteriore conferma delle nostre difficoltà?
È già successo in passato, non è un dato da drammatizzare, anche se i nostri indicatori non sono esaltanti. Già prima della crisi la Spagna era davanti a noi, e oggi la differenza in fatto di Pil pro capite è lievissima. Diciamo che noi e la Spagna siamo sulla stessa barca: bravi loro a sfruttare i grandi investimenti, soprattutto per le grandi infrastrutture.
All’orizzonte avanzano nubi sempre più minacciose: le guerre commerciali. Che impatto potrebbero avere sulla nostra economia?
I dazi possono avere conseguenze pesanti sulla nostra economia, anche se oggi ancora non sappiamo con esattezza come si configureranno le misure protettive. Certo, paghiamo già le sanzioni alla Russia, molto più di altri paesi, visto che in alcuni settori, come il cemento, abbiamo scommesso proprio su Mosca. E poi le sanzioni alla Russia colpiscono forte i settori tradizionali del made in Italy, dall’alimentare al tessile. Se a tutto questo dovessero aggiungersi anche barriere commerciali verso gli Usa, lo scenario diventerebbe più preoccupante. Anche perché l’export verso la Ue resta stabile e la stessa Cina, seppure guardi con molta attenzione al made in Italy, non basta a colmare il buco.
Anche la Germania è in rallentamento. Questo non deve metterci in allarme?
Sì, questo dato è preoccupante, perché vendiamo molti semilavorati ai tedeschi. Un auto in meno venduta a Monaco si riflette negativamente su Torino.
Che cosa serve oggi alle imprese per ritrovare fiducia?
È sbagliato pensare che alle imprese servano solo strumenti esterni. Certo, in ordine di importanza, citerei la stabilità internazionale, una burocrazia meno ottusa e un buon credito, che oggi per fortuna non manca. Ma le imprese devono anche interrogarsi al loro interno, non possono rimanere bloccate e non crescere dimensionalmente o continuare a non risolvere il problema dei passaggi generazionali: quando si arriva alla terza generazione, il più delle volte si vende l’azienda. Quando la barca va male, nessuno può tirarsi fuori, perché vuol dire che tutti abbiamo fatto qualcosa di sbagliato.
Siamo in piena impasse politica per la formazione del nuovo governo. L’incertezza, si sa, non piace ai mercati, ma non rischia anche di peggiorare le performance economiche del 2018?
Per ora la lentezza nel trovare una soluzione politica dopo il voto del 4 marzo non ha pesato, come si è visto in Borsa e con l’andamento dello spread. All’estero, ormai, lo sanno che siamo così e il governo dimissionario ha comunque agito con vigore per quanto di sua competenza. Ma se l’impasse si dovesse prolungare e all’estero avvertissero un’incertezza molto profonda, nel giro di qualche settimana potremmo non godere più di questa benevola disattenzione dei mercati. Se poi si andasse verso un governo del Presidente con l’obiettivo di tornare entro un anno a votare, lo scenario volgerebbe al peggio: prima di settembre-ottobre sarà infatti difficile fare le elezioni. A quel punto, chi provvederà alla stesura della legge di Bilancio 2019?
(Marco Biscella)