L’ultimo, in ordine di tempo, scandalo del calcio solleva un problema interessante e poco esaminato in questa fase di grave crisi del settore: se, e in che misura, le tifoserie (in gergo economico una parte importantissima degli “stakeholder”) possono essere i promotori di una maggiore trasparenza nei conti delle società sportive.
I giornali di oggi riportano che l’industria è in profondo rosso per un miliardo di euro a ragione di ricavi in calo e perdite record. C’è un nesso tra profondo rosso e le varie forme di totonero o di scommesse truccate: le stesse tifoserie stanno perdendo fiducia nel loro “oggetto del desiderio” e si organizzerebbero per impedire che, a ragione di trucchi e trucchetti, resterebbero in vita così poche squadre che non ci sarebbe comunque campionato. La teoria economica, però, dà torto a questa tesi.
Ancora più significativo di algoritmi ed equazioni è il disastro di fronte agli occhi di tutti: esso dimostra che, una volta tanto, la teoria economica e il “chroniqueur” avevano previsto giusto otto anni fa (al momento del decreto “spalma perdite”), nel sostenere che la cancrena era irreversibile e non sarebbe bastato il “clistere” (quali quelli praticati dai medici di Molière a qualsivoglia paziente per qualsivoglia malattia) proprio del decreto “spalmaperdite”.
Lo spettacolo, lo sport e in particolare i comparti di spettacolo e sport di forte appello popolare comportano mercati altamente imperfetti, principalmente sotto il profilo delle informazioni e delle relative asimmetrie. Nel mercato del lavoro si innesca lo “star system”, dove il prezzo di equilibrio tra domanda e offerta resta indeterminato e indeterminabile; ciò si riflette nel mercato dei capitali (specifici al settore) e nei meccanismi di organizzazione e incentivazione all’interno delle squadre.
Sulle tifoserie, grava l’ipoteca degli “strong feelings” (dal titolo di un bel libro di Jon Elster di qualche anno fa) che annebbiano ancora di più le informazioni e le conoscenze necessarie per giungere a schede di offerta e di domanda razionali e, quindi, a prezzi di equilibrio. Nelle tifoserie, i giochi sono simultaneamente a più livelli e su più tavoli: le funzioni da massimizzare sono molteplici, ma tra di esse raramente viene inclusa, anche in una situazione di emergenza e di force majeure, quella della trasparenza contabile e dei bilanci in regola. Un’analisi del funzionamento economico del settore è un libro dell’economista Rocco Scandizzo, un’utile lettura per tutti gli interessati.
Il calcio è quello che gli economisti chiamano un “merit good”, “un bene meritorio”, o, secondo altri autori, un “bene sociale”, con forti effetti esterni per la collettività. Il fatto che le squadre del cuore siano, per molti italiani, “un pezzo di vita” contribuisce alla creazione di “capitale sociale”, arricchisce il senso di appartenenza, incanala l’irruenza verso segmenti (gli stadi) controllabili.
Dicono gli storici che nel luglio 1948, dopo l’attentato a Togliatti, l’Italia evitò la guerra civile grazie a una vittoria sportiva. Più recentemente, e più modestamente, nel luglio 1982, il primo Governo Spadolini ebbe vita più lunga grazie ai gol di Paolo Rossi, salutati dal balcone di Palazzo Chigi (evento quanto mai inusuale) dal presidente del Consiglio in persona. Per queste ragioni i misteri del mercato del calcio sono – diciamolo senza pudore – gloriosi.
Un “merit good” può essere prodotto e distribuito in modo socialmente efficiente solo se ben regolamentato. Dato che facciamo parte dell’Unione europea, la regolazione non può essere distorsiva del più ampio mercato comunitario. Regolazione vuole necessariamente dire disciplina di bilancio e, quindi, amministrazione controllata o commissariamento per le società finite letteralmente “nel pallone”, interdizione a nuovi incarichi per i manager responsabili dello sfascio, drastica riduzione di ingaggi e stipendi (negli altri settori, anche molto ma molto meritori, si va in cassa integrazione o si resta disoccupati).
Occorre, comunque, ricordarsi che la “la legge Draghi” comporta, per le società quotate in borsa, l’impossibilità di cedere i pacchetti di controllo (superiori sempre al 30%+1 delle azioni) senza Opa; ciò blocca, ad esempio, le possibilità alla Roma di attingere nuova capitalizzazione, espandendo il pacchetto di controllo. Se verrà la cura sarà amara. Ma verrà dai regolatori, non dalle tifoserie.