Il racconto dei mali endemici dell’Italia è diventato un genere letterario monotono. Anno dopo anno, economisti, sociologi e statistici sono costretti a replicare un claim che, se non fosse drammaticamente reale, potrebbe cominciare a risultare stantio. Eppure questo racconto va fatto, perché è la storia dei nostri tempi non più sazi e un po’ più disperati di qualche anno fa.
La fotografia del Paese, scattata in quadricromia dal Rapporto annuale dell’Istat, riadatta questo racconto allungandolo nel tempo. Ma il risultato è sempre lo stesso: famiglie che faticano, tenore di vita che diminuisce, risparmi che evaporano. È il clima del crollo delle aspettative e delle prospettive. Negli ultimi quattro anni il potere d’acquisto è sceso di 5 punti percentuali, i consumi sono cresciuti più dei redditi disponibili. Per intendersi bene: la perdita in termini reali è stata di 1.300 euro a testa e la propensione al risparmio delle famiglie è scesa dal 12,6% all’8,8%.
È una contrazione che riguarda tutta la scala sociale, come se le famiglie fossero scese tutte (o quasi) di un gradino: la percentuale di chi si trova sotto la soglia minima di spesa (calcolata come media dei consumi complessivi) è infatti sostanzialmente identica da quindici anni, oscillante tra il 10 e l’11%. Non aumentano le disuguaglianze insomma: semplicemente un po’ tutti se la passano peggio di prima.
Ma se da questo calcolo (ovvero la cosiddetta “povertà relativa”) si passa a osservare l’andamento di quella assoluta, si scopre che c’è qualcuno che comunque sta peggio degli altri: dal 2005 a oggi, infatti, i poveri in senso assoluto sono cresciuti dal 4% al 4,6%. Stanno peggio, come sempre e più di sempre, le famiglie del Sud, quelle numerose e più in generale quelle dove ci sono figli piccoli. E ancora, stanno peggio le famiglie in cui c’è un solo percettore di reddito, per effetto di un modello di imposte dirette pensato sempre e soltanto per gli individui, mancando ancora e sempre una forma qualunque di tassazione famigliare.
Il dato è in questo caso impressionante: dove si lavora in due il rischio di povertà si ferma attorno al 2%, ma dove lavora soltanto l’uomo questa quota schizza al 40%. È un dato in cui il racconto solito del disagio si fa sfuggente, perché la tinta noir diventa prevalente e il contrasto con il pensiero unico anti-famigliare si fa marcato e abissale. Così come si osserva con imbarazzo crescente il drammatico risultato finale delle separazioni e dei divorzi, che spingono il dato del rischio di povertà per chi rimane solo oltre il 20% dei casi.
Ecco, questa è la fotografia di un Paese in cui la recessione economica non è che un pezzo di una più generale recessione sociale. Un Paese in frenata, lunga e costante, in cui la mobilità sociale si è bloccata da almeno un decennio, tanto che solo l’8,5% dei figli di operai riesce a salire i gradini fino ad arrivare a posizioni professionali apicali. L’immobilità è dunque al potere, mentre il Potere con la maiuscola sembra voler fissare con ancora più forza questa immobilità: con o senza Monti, in un ventennio il carico fiscale corrente sulle famiglie è cresciuto con inesorabile progressione.
Niente di nuovo, si diceva. Eppure ogni volta più chiaro e drammatico nel delineare uno scenario che si avverte distintamente anche nell’esperienza di vita. Come non risulterà nuovo, ma in ogni caso indispensabile, il ribadire ancora una volta la necessità di una svolta nelle politiche pubbliche del Paese: occorre metter mano a incisivi interventi che associno il contrasto alla povertà e il rilancio dell’occupazione.
In Europa questo genere di interventi va sotto il nome di “reddito minimo”, modello per altro già testato con scarsa convinzione (e con inevitabile insuccesso) alla fine degli anni Novanta. Se si volesse provare una via alternativa occorrerebbe eventualmente riformulare la tassazione, alleggerirla, ricalibrarla sulla famiglia. Ma è bene ricordare che un unico Paese, insieme all’Italia, non prevede uno schema di reddito minimo: la Grecia. Ogni riferimento è ovviamente puramente casuale.