“È assolutamente priva di ogni fondamento l’ipotesi che la Repubblica Italiana abbia utilizzato i derivati alla fine degli anni Novanta per creare le condizioni richieste per l’entrata nell’euro”. Il Dipartimento del Tesoro interviene nella questione sollevata oggi dal Financial Times, secondo cui l’Italia rischierebbe una perdita di oltre 8 miliardi di euro a causa dei derivati ristrutturati all’apice della crisi dell’area euro. Le operazioni poste in essere all’epoca (alla fine degli anni 1990, il periodo precedente o subito successivo all’ingresso dell’Italia nell’euro, quando Mario Draghi era direttore generale del Tesoro), fa sapere il ministero dell’Economia, “sono state sempre registrate correttamente secondo una prassi consolidata, nel rispetto dei principi contabili sia nazionali che europei. I controlli effettuati sistematicamente dall’Eurostat a far tempo dalla seconda metà degli anni Novanta, anche quelli conseguenti all’introduzione in più fasi di nuove linee guida sugli strumenti finanziari derivati, hanno sempre confermato la regolarità della contabilizzazione di queste operazioni”. Il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, ha confermato che si tratta di “un grande malinteso” e che non ci sarebbe “nessuna perdita”. “C’e’ stato un normale controllo periodico della Corte dei Conti – ha aggiunto -. Si tratta di misure adottate in passato per gestire il tasso interesse sul debito. I costi sono largamente inferiori ai rischi”. Un chiarimento è giunto infine anche dalla Corte dei Conti, secondo cui “l’indagine richiamata dalla stampa è unicamente riferibile all’operazione, già conclusa all’inizio del 2012, con la quale si è provveduto alla chiusura di un contratto sottoscritto nel 1994 con la Banca Morgan Stanley”.