Entra in commercio la pillola abortiva e non si vede cosa ci guadagnino le donne da un sistema che risulta più doloroso e che continua ad andare nella via della privatizzazione di una scelta tragica: l’aborto.
È come se, novità dopo novità, discutessimo sempre sui dettagli, ma ci scordassimo dei protagonisti, di quello che passano e di quelli che sono i loro diritti. Certo che il dettaglio conta: “non un aborto banalizzato, ma un aborto vissuto in tutta la sua crudezza”, commenta la ginecologa Alessandra Kusterman (La carne e il cuore: storie di donne, a cura di C Bellieni. Cantagalli 2010) e le fa eco la psichiatra Claudia Ravaldi: “Continuiamo a cercare soluzioni veloci, mirate a correggere l’incidente di percorso. E trascuriamo la persona, la sua vita precedente, ciò che da questo atto giungerà come conseguenza psichica” (ibidem).
Già: il dettaglio conta, ma domandatevi una buona volta cosa è un aborto, perché l’aborto è il grande censurato di questa storia. Paradosso? Proprio no: si parla di legge, metodi, ospedalizzazione, obiezioni, ma nessuno parla più (ma se ne è mai parlato?) dell’aborto, di come termina la vita del concepito e stravolge quella della madre. E davvero l’interesse della donna è allora trovare un sistema per farlo in modo più solitario? O magari le donne vorrebbero ben altro?
Si impiegano risorse per far campare gli anzianotti fino a 120 anni, e ci sono donne che sono afferrate alla gola dalla tragedia della povertà. Si liberalizza la droga da sballo per vivere isolati dal mondo e ci sono migliaia di ragazze che vivono gravidanze nella solitudine e nell’abbandono. Si spendono miliardi per non farsi sfuggire nemmeno un bambino down all’analisi prenatale, e ci sono centinaia di genitori che non trovano soldi per curare i loro amati bambini colpiti da sindrome down così come da altre terribili malattie.
Allora, il bisogno primo della gente è come eliminare meglio il bambino concepito o come trovare un clima culturale per abbracciarlo e trovare i soldi?! Chiedetelo a tutte le mamme che hanno abortito. Chiedetelo a tutte le ragazzine se il loro desiderio è fare figli o trovare il modo di non farli nascere. Perché non farli nascere è una scorciatoia, e come tutte le scorciatoie appare una via percorribile come l’altra, sennonché è facile che ci siano buche e sterpi.
Ma è davvero una libera scelta abortire? O è imposto dal clima del figlio unico culturale (più feroce di quello del figlio unico di stato cinese), dall’obbligo di procreare dopo i 30 e di farne uno solo, dall’obbligo sociale – e che obbligo! – di farlo perfetto perché altro non è permesso: se nasce “diverso” tutti ti guardano e ti domandano di soppiatto «Ma non lo sapeva prima?», «Ma non ha fatto la diagnosi prenatale?».
È davvero una scelta abortire, quando vengono abortiti quasi tutti non solo i bimbi con ritardo, ma anche quelli che hanno anomalie genetiche che non danno gravi alterazioni, come la sindrome di Turner o di Klinefelter, nomi strani, ma che significano bassa statura nel primo caso e eccessiva altezza con talora (non sempre) un po’ più di insuccesso scolastico nel secondo?
E quanto è una scelta delle future nonne, piuttosto che quella delle future mamme che invece il figlio lo vorrebbero contro il parere dei genitori (basta vedere il boom di gravidanze e nascite adolescenziali all’estero)? Domande, domande: domande da non far crollare sotto la sfera delle procedure.
La pillola abortiva non ci piace, soprattutto perché sposta ancora una volta il dibattito dal dolore e dai diritti dei protagonisti, e risulta un nuovo alibi per non discutere su come aiutare le donne. Le ragazze invece vorrebbero essere davvero libere di far famiglia e figli e sono pronte a premiare chi apre loro questa prospettiva e a punire, col libero voto, chi invece sa solo offrire nuove “procedure”.