Non è facile districarsi nel fiume delle statistiche economiche che ogni giorno dipingono scenari spesso divergenti. E che, quasi sempre, sono piegate a fini strumentali di lotta politica. Non fanno eccezione le ultime nuove dal fronte della produzione industriale, sulla base dell’analisi di Confindustria, preceduta dal Pil italiano del primo trimestre e dai numeri di Eurostat.
Da queste analisi emergono alcuni punti fermi: 1) la ripresa, in Italia, segna il passo; 2) il recupero, che in questi mesi sta perdendo energia, è esclusivamente dovuto all’export, mentre stenta a ripartire la domanda interna; 3) tra le cause profonde del malessere italiano spiccano la pressione fiscale, causa prima del trend negativo dei consumi, e il limitato, se non assente, ruolo della finanza pubblica quale motore dell’economia; 4) tra le conseguenze più gravi dell’attuale trend, spicca l’allargarsi della forbice tra le varie aree del Paese: le regioni più legate all’export, a partire dal Nord Est, sono riuscite ad agganciarsi al passo della media Ue, il Mezzogiorno ristagna sui valori, già infimi, del 2010; 6) In ogni caso, l’Italia è il Paese più lento ad assorbire la botta della crisi Lehman. Rispetto al 2007, la produzione industriale è sotto ancora di 17 punti percentuali, più di ogni altra nazione dell’area Ocse. Ovvero, alla vigilia di un possibile nuovo shock per le economie in arrivo dalla Grecia o da qualche area calda della congiuntura (vedi il deficit strutturale Usa), l’Italia assomiglia sempre più a un pugile che non si è ancora rimesso dall’ultimo ko.
Di qui l’attualità di un bivio politico che attraversa le forze della maggioranza. In estrema sintesi, si confrontano due partiti: a) una svolta è necessaria e urgente. Gli sgravi fiscali potrebbero risvegliare gli “animal spirits” dell’economia, rilanciare i consumi e rimettere in moto un ciclo di crescita che, presto, potrebbe ridar fiato alla macchina delle entrate. Solo così si può consolidare, inoltre, il patto di fiducia tra gli elettori del centrodestra e il governo. Quindi, occorre un rapido intervento sul fronte dell’Irpef e del quoziente famigliare, da compensare con nuove entrate, magari una tantum; b) la stretta sul fronte delle spese ha evitato all’Italia una deriva greca. Ma oggi, se possibile, il passaggio è ancora più stretto. I mercati finanziari non intendono fare alcun sconto alla Penisola, che continua a godere di pessima fama visto l’ammontare del debito pubblico. La sola ipotesi di sgravi fiscali, anche in presenza di eventuali e credibili compensazioni sul fronte delle entrate, verrebbe accolta da ondate di vendita sul fronte dei cds e dei titoli di Stato, con effetti devastanti sul fronte delle entrate. Insomma, il braccio di ferro tra Silvio Berlusconi, alla ricerca di un’arma per risalire la china dopo la sconfitta delle amministrative, e Giulio Tremonti, oggi quasi un’icona dell’opposizione che immagina nuovi equilibri politici.
Ma che ci dicono i numeri, al di là delle polemiche strumentali? Innanzitutto, che l’industria italiana, grazie al salvagente dell’export, non si è comportata poi così male, nel suo complesso. Nonostante “i fiumi di parole spesi per rimarcare il divario di competitività del nostro Paese rispetto alla Germania”- nota il professor Marco Fortis – “il ritardo temporale di recupero dei massimi pre-crisi da parte dell’export italiano rispetto a quello tedesco in realtà è attualmente di non più di 6-7 mesi”.
Infatti, nei dodici mesi “scorrevoli” tra ottobre 2007 e settembre 2008, le nostre esportazioni avevano raggiunto un massimo storico a quota 376,5 miliardi di euro. Poi erano precipitate a un minimo di 291,6 miliardi nel periodo febbraio 2009-gennaio 2010, ricominciando da allora a riprendersi, prima molto lentamente, poi sempre più velocemente. Già nei dodici mesi del 2010 l’export italiano si è riportato a 337,6 miliardi, ma nei primi tre mesi 2011 ha accelerato, salendo nei dodici mesi “scorrevoli” compresi tra aprile 2010-marzo 2011 a 351,9 miliardi.
Purtroppo ci sono due punti deboli. Innanzitutto, accanto all’export cresce anche l’import di beni intermedi e di materie prime, riducendo l’afflusso di benefici per l’economia italiana. Secondo, le sorti dell’economia italiana sono sempre più condizionate dalla congiuntura internazionale e sempre meno dalle ricette, più o meno miracolistiche, di un ipotetico piano di rilancio dell’economia. In altri termini, la macchina produttiva italiana può correre solo se corre l’economia internazionale. Più ancora, occorre che il made in Italy cerchi di sfruttare nella maniera più efficiente ed efficace la spinta delle economie emergenti.
In questi mesi, nota la Confindustria, l’Italia è scivolata dal quinto al settimo posto tra le economie manifatturiere, causa il sorpasso della Corea e dell’India. E presto saremo ottavi, per colpa dell’imminente sorpasso del Brasile. Non è un dato in sé negativo, purché si sia in grado di sintonizzarsi sulla nuova domanda mondiale, come si sta cercando di fare seppur in ritardo: un solo land tedeso, il Baden Wuttemberg, vende nel Far East l’80% dell’export globale italiano. Ma è illusorio sperare nell’effetto taumaturgico delle eventuali riforme sul fronte dalla congiuntura. Almeno nel breve termine.
Certo, il Paese ha bisogno di liberare risorse, tagliando spese improduttive. Più ancora, è necessario un grande patto per il lavoro, che riapra le porte del mercato ai giovani. Ma di sicuro non ha bisogno di una ripresa “drogata” dalla distribuzione di ricchezza cartacea dietro cui non può che esserci nuovo deficit a danno dei più deboli. Non si esce dalla crisi globale con qualche pillola domestica. Semmai, l’unica via efficace è di preparare la corazza per affrontare congiunture che potrebbero essere tempestose.