Il Tfr in busta paga rischia di rivelarsi l’ennesima beffa per i cittadini. L’idea era stata salutata alcune settimane fa (non da tutti per dire la verità) come una proposta potenzialmente di buon senso, moderna, utile per venire incontro alle difficoltà di molte famiglie e dare una piccola spinta ai consumi, ancora ristagnanti. La versione contenuta nella bozza di Legge di stabilità presentata dal Governo, invece, ha tutto l’aspetto di una misura beffarda, inefficacie e inutile.
Vi sono alcuni requisiti che questa proposta avrebbe dovuto soddisfare e garantire per essere uno stimolo efficace e credibile dal lato dei consumi, senza danneggiare il tessuto imprenditoriale del Paese, costituito da piccole e medie imprese che, piaccia o no, al momento utilizzano il Tfr dei dipendenti come forma di finanziamento aziendale. La possibilità per i lavoratori dipendenti di decidere se ricevere o meno la quota parte mensile del Tfr, anziché accantonarla, poteva essere un’idea condivisibile, a patto di lasciare completa libertà di scelta a tutti i cittadini, garantire una tassazione in linea a quella in vigore per gli accantonamenti riscossi a fine rapporto di lavoro e, infine, prevedere delle forme di compensazione per le imprese che si troverebbero improvvisamente senza delle risorse sulle quali credevano di poter contare, magari anche per tenere in vita le aziende stesse.
La proposta del Governo, che per ora mantiene il rango di bozza, disattende almeno due di queste tre condizioni. Da una parte le aziende non dovrebbero scontare effetti negativi, dal momento che, qualora il lavoratore decidesse di ricevere il Tfr in busta paga, saranno le banche a versare alle imprese lo stesso ammontare, richiedendo in cambio il pagamento di un tasso di interesse pari a quello che l’azienda versava precedentemente al lavoratore. Tali finanziamenti saranno coperti da garanzia statale, quindi dal punto di vista delle banche si tratterebbe di guadagni, bassi, ma praticamente assicurati. Bisogna però dare atto che se il meccanismo verrà effettivamente perfezionato in questi termini, e ancora non vi è certezza, dovrebbe funzionare.
La questione più eclatante è invece quella relativa alla tassazione del Tfr, in qualunque forma si decida di percepirlo, questione che assume le fattezze di una rete da pesca dalla quale è impossibile scappare per il pesce-contribuente. Da una parte, se il lavoratore decide effettivamente di ricevere il Tfr mensile in busta paga, queste somme incrementali del proprio reddito saranno soggette a tassazione ordinaria, non parificata a quella, mediamente inferiore, che verrebbe invece applicata nel caso in cui l’intero Tfr venga riscosso alla fine del rapporto di lavoro.
Una disparità di trattamento ingiustificabile e che assomiglia più a una provocazione beffarda da parte dello Stato, un tentativo arrembante di anticipare a oggi, aumentandola, la tassazione di somme che sarebbero state tassate, di meno, in futuro. Come dire, per il Governo è meglio una bella gallina grassa oggi che uno striminzito uovo domani, ovvio. Come è ovvio che di fronte a questa impostazione ben poche saranno le persone invogliate ad aderire a un’iniziativa tanto decantata e che poteva effettivamente essere utile, ma venuta alla luce fortemente depotenziata.
Meglio quindi lasciare le cose come stanno? Probabile, ma anche in questo caso la mano ben visibile del fisco riuscirà a infilare le mani da qualche parte. Ad esempio, chi lascia il proprio Tfr in azienda, ogni anno si vede rivalutare l’ammontare accantonato negli anni precedenti di una certa percentuale, legata all’inflazione. Bene, su questa rivalutazione ovviamente vengono pagate delle tasse, che con la Legge di stabilità vengono incrementate dall’11% al 17%.
Allora meglio optare per destinare il Tfr a un fondo privato di previdenza integrativa, visto che i futuri assegni pensionistici saranno sempre più esigui? Potrebbe essere una buona idea, considerando che dal 2007 a oggi i rendimenti dei fondi pensione privati sono stati mediamente più alti di quelli ottenuti da chi ha deciso di lasciare il Tfr in azienda. Non fosse che la manovra del Governo prevede l’incremento dell’imposizione fiscale sui rendimenti dei fondi pensione, che passa dall’11,5% al 20%, colpendo quindi indirettamente chi ha deciso di far confluire il proprio Tfr in questi fondi. In altre parole, non sembra esserci via d’uscita.
Anche la libertà di scelta da parte dei lavoratori ne esce di fatto depotenziata, innanzitutto perché viene preclusa a priori la possibilità di aderire all’iniziativa ai dipendenti pubblici, ai lavoratori domestici e a quelli del settore agricolo. In secondo luogo, si prevede che la scelta sia irreversibile e vincolante nel tempo. Chi deciderà di ricevere il Tfr in busta paga a partire dal marzo 2015 non avrà più diritto di ripensamento e continuerà a riceverlo mensilmente fino a giugno 2018. Libertà di scelta sì, ma solo per una volta e non per tutti.
La questione del Tfr rischia quindi di diventare una giungla in cui è veramente complicato orientarsi e capire cosa sia più opportuno fare. Forse una soluzione ci sarebbe per rendere tutto più semplice: abbandonare definitivamente, e non per finta, l’idea paternalistica che sia lo Stato-genitore a decidere e influenzare i propri cittadini scegliendo o indicando cosa dovrebbero fare con i loro soldi. Abolire il Tfr così come conosciuto oggi e restituire la piena disponibilità immediata di queste somme ai cittadini, in modo che possano decidere con piena libertà se risparmiarli per la propria vecchiaia, se spenderli e come, se investirli e dove, se nasconderli sotto il materasso.
Sembrava questo il principio ispiratore che animava le prime dichiarazioni di Renzi sul Tfr in busta paga, ma purtroppo ancora una volta è mancato il coraggio di superare i proclami e andare fino in fondo. L’impegno c’è, a parole, e tutti ce lo auguriamo che sia #lavoltabuona, ma quello che scoraggia è che a cambiare l’Italia a suon di roboanti promesse e riforme mozzate ci hanno già provato in tanti, però senza grandi successi.