Il governo, che lo scorso 2 maggio ha ricevuto dai gestori mediorientali l’onere e l’onore di occuparsi dell’Alitalia in crisi, ha davanti a sé diverse strade per la sua cessione, ma non si è accorto che sono tutte senza uscita. Esse corrispondono alle tre offerte che sono state presentate per la parte “aviation” in risposta al bando elaborato dai commissari straordinari, due delle quali da parte di grandi vettori europei come Lufthansa de Easyjet e la terza, pervenuta fuori dai termini e dai requisiti stretti del bando, da parte del fondo americano Cerberus. Esaminiamole una a una partendo da quella che sembra la più praticabile, la proposta di Lufthansa.
In primo luogo ricordiamo che il gruppo Lufthansa è il maggior operatore aereo europeo per dimensioni economiche, fatturando oltre 32 miliardi di euro all’anno grazie a più di 120 mila dipendenti e trasportando ormai oltre 110 milioni di passeggeri attraverso cinque differenti vettori: la stessa Lufthansa, le ex compagnia di bandiera di Svizzera, Austria e Belgio, rispettivamente Swiss, Austrian e Brussels Airlines, e il vettore low cost interno al gruppo, Eurowings, che comprende anche Germanwings. Dei 32 miliardi di ricavi, oltre 15 arrivano dai passeggeri trasportati direttamente come Lufthansa, quasi 5 dai passeggeri di Swiss, più di 2 ciascuno da Austrian, Brussels e dal cargo, oltre 5 dalle manutenzioni di Lufthansa Technik e oltre 3 dal solo catering, più del fatturato dell’intera Alitalia. In sintesi, il gruppo Lufthansa è un colosso dell’aviazione mondiale, grande oltre dieci volte Alitalia per fatturato, dipendenti e livelli di traffico. In linea teorica non dovrebbe aver problemi ad assorbire Alitalia nella sua interezza, essendo così piccola rispetto a esso. Tuttavia bisogna considerare tre aspetti non secondari che portano in una direzione opposta:
1) Lufthansa ha appena acquisito circa tre quarti della flotta di Air Berlin e del relativo personale, vettore che perdeva molti soldi e ha bisogno di essere integrato e ristrutturato, operazione che richiede un certo tempo.
2) Se per ipotesi sia Air Berlin che Alitalia fossero stati già di proprietà di Lufthansa, le loro perdite cumulate avrebbero bruciato oltre i due terzi dei profitti dell’intero gruppo. Pertanto anche se Alitalia attuale è molto piccola rispetto a Lufthansa non lo sono altrettanto le sue perdite, ed esse non possono essere ignorate o trascurate.
3) L’aggregazione di Alitalia rafforza ulteriormente le dimensioni di Lufthansa, ma è destinata a peggiorarne in maggiore o minor misura la redditività. È evidente che Lufthansa cerchi di contenerne l’impatto, evitando di acquisire quella parte di attività di Alitalia maggiormente esposta alla concorrenza dei vettori low cost, dunque i voli europei e quelli nazionali che non hanno Fiumicino come origine o destinazione e dunque non servono ad alimentarne i voli di lungo raggio.
In base a queste considerazioni è evidente che l’offerta di acquisizione presentata da Lufthansa non possa che includere una quota piuttosto ridotta dell’attuale flotta e una ancor più ristretta del personale. Questi numeri non appaiono accettabili da parte di un governo uscente alla vigilia di un’elezione e in realtà neppure da parte di un governo entrante all’indomani della medesima. Dal punto di vista del governo italiano Lufthansa dovrebbe, per rendere più appetibile la sua offerta, farsi carico di ulteriori segmenti aziendali, ma questo non è possibile in quanto non rientrano, né possono rientrare, nel suo interesse, dato che includono rotte portate in perdita da una concorrenza dei vettori low cost molto più agguerrita in Italia rispetto a quella analoga sui cieli tedeschi. Se Lufthansa cercasse di accontentare le richieste di un qualsiasi governo in carica continuerebbe a perdere in Alitalia molti soldi, una condizione che è evidentemente incompatibile con un grande gruppo quotato in borsa.
Così come Lufthansa, nessun altro grande vettore europeo avrebbe interesse a prendersi tutta Alitalia, ma semplicemente quella parte più o meno limitata che appare complementare e coerente con il gruppo nel quale verrebbe inserita. Il discorso vale anche per Easyjet, vettore in crescita costante e al quale può far comodo una contenuta espansione a spese di un concorrente in crisi, come già accaduto nel caso dell’acquisizione parziale di Air Berlin. Tuttavia è impensabile che un vettore low cost si possa far carico per intero o per una quota rilevante di un vettore tradizionale che è andato in crisi proprio per i suoi elevati costi di produzione. Infatti, considerando che sui voli nazionali ed europei Easyjet riesce a fare molto meglio di Alitalia e può aumentare la sua presenza semplicemente occupando gli spazi di mercato che il vettore nazionale in declino lascia spontaneamente, quale vantaggio aggiuntivo potrebbe avere dal comperarselo?
Solo un soggetto economico diverso da un operatore aereo già presente nello stesso mercato avrebbe interesse a prendersi tutta o quasi Alitalia. Il fondo americano Cerberus rientra in questa categoria, ma purtroppo è extraeuropeo e dunque soggetto al limite azionario del 49% previsto dalle norme dell’Unione europea. In conseguenza, per prendersi tutta l’Alitalia che vorrebbe avrebbe bisogno di uno o più partner comunitari, che tuttavia non compaiono all’orizzonte in relazione a quote azionarie consistenti. In sintesi, chi potrebbe prendersi tutta o quasi Alitalia non può volerla, mentre chi la vorrebbe non può averla. Questo è l’impasse che rende Alitalia invendibile.
Vi sono due sole vie d’uscita, la prima delle quali rappresenterebbe un grande rivoluzione, in grado di favorire il nostro mercato e il nostro Paese: un vettore low cost tradizionale decide di modificare il suo modello di business e di buttarsi sul segmento del lungo raggio. Per far questo ha bisogno dei diritti di volo intercontinentali, oggetto ancora, salvo il Nordamerica e pochissimi altri paesi di piccola taglia, di accordi bilaterali tra paesi. Per acquisirli e volare ovunque, non solo sul Nordatlantico, ha necessità di comprarsi, oppure di fare stretti accordi di cooperazione con una compagnia di bandiera che li possegga e di collocare un hub intercontinentale nel Paese di quella compagnia. Al momento in Europa ve ne è una sola e si chiama Alitalia. Comprando Alitalia questo vettore acquisirebbe anche il diritto a volare dall’Italia verso tutti i continenti e darebbe l’avvio a una quadruplice rivoluzione: la prima conversione al lungo raggio di un vettore low cost storico; l’attivazione di un vero hub intercontinentale sul territorio italiano grazie a consistenti voli di feederaggio verso l’Italia dal resto d’Europa; il rilancio di Malpensa, sede naturale di questo hub data la sua collocazione al centro del sud dell’Europa; l’attivazione di un hub intercontinentale tendenzialmente “low cost”, e dunque in grado di competere con quelli tradizionali e robusti di Monaco, Francoforte, Amsterdam e Parigi. Purtroppo il vettore low cost che desideri rivoluzionare il suo modello di business al momento non c’è.
In sua assenza l’ipotesi più probabile è che l’azionista di riferimento di Alitalia resti quello storico, il contribuente italiano. È un pessimo scenario salvo che il decisore pubblico, magari quello che arriverà col prossimo governo, sia un ottimista in grado di vedere opportunità negli ostacoli anziché ostacoli nelle opportunità (sto prendendo a prestito un noto aforisma di Winston Churchill). In tal caso non gli resta che riportare lui in equilibrio Alitalia, ricercare lui un accordo con un grande vettore low cost per il feederaggio intercontinentale, e poi vendere l’azienda a caro prezzo dopo aver trasformato gli attuali esuberi in fabbisogno di nuovo personale.
Fantascienza? Forse. Ma i piloti aerei stessi ci insegnano che volando alto si incontra molto meno attrito.